IL POPULISMO DI RITORNO CHE ALLARMA PALAZZO CHIGI
La miscela di pandemia, guerra e inflazione sta provocando un rigurgito del populismo antieuropeo in parte prevedibile, in parte sconcertante. Prevedibile perché è un modo indiretto di criticare il governo di Mario Draghi e l’allineamento con le istituzioni di Bruxelles e con la Nato. Sconcertante perché si scaglia contro un’Europa che in realtà ci sta consegnando finanziamenti corposi; e che chiede il rispetto degli impegni, come il premier ha cercato di far capire con durezza ai partiti della sua coalizione. Ma a guardare bene, Lega, M5S e perfino un pezzo di FI, corifei di questo ritorno euroscettico, hanno un elemento in comune. Si tratta di tre formazioni che, in misura e per motivi diversi, vengono date in calo. E sembrano alla ricerca disperata di qualcosa o qualcuno sui quali scaricare la responsabilità della loro vistosa perdita di identità e di consensi. Nel caso delle ultime due, a questo si sommano divisioni interne sempre meno controllabili e foriere di possibili strappi. Il «no» all’invio di aiuti militari all’Ucraina e quello grillino all’inceneritore per i rifiuti a Roma; gli attacchi alla Commissione Ue che chiede la riforma del catasto, condivisi anche dalla destra d’opposizione di FdI, sono legati da uno stesso filo. Consiste nel tentativo affannoso di assecondare qualunque parola d’ordine che li faccia apparire solidali con un malessere reale e diffuso. È un atteggiamento destinato ad accentuarsi di qui al voto amministrativo di giugno, e ancora di più in vista delle Politiche del prossimo anno; e a moltiplicare le tensioni con Palazzo Chigi e nella maggioranza. Ma bisogna vedere se pagherà in termini di consensi, e se contribuirà alla tenuta sociale, qualora queste forze dovessero mai tornare a governare. Cercare di apparire diversi agli occhi di un elettorato deluso che si sta allontanando è un gioco già visto, e dagli effetti controversi. Salvini che alle raccomandazioni di Bruxelles di rivedere le imposte sulla casa replica «si attacchino al tram», secondo il segretario del Pd, Enrico Letta, «ha superato il limite, si comporta come se fosse all’opposizione». A preoccupare è il fatto che queste affermazioni si accompagnano a parole liquidatorie dell’ala anti Ue della Lega, pronta a additare «le ingerenze» dell’Europa come se si fosse tornati al 2018. Tradisce queste tentazioni anche la soddisfazione trasversale per la proroga della sospensione del Patto di stabilità. Si tende a non vedere che non è un successo da rivendicare. Semmai, è la conferma di una situazione finanziaria in bilico a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, ieri ha fatto notare che lo slittamento al 2023 non può preludere a «un ritorno a una spesa illimitata». Pensarlo significa sottovalutare le conseguenze che questo avrebbe per un Paese già fortemente indebitato come l’Italia.