«Da quel giorno la mafia diventò problema di tutti Un riscatto per noi vittime»
Selima Giuliano, figlia del commissario ucciso nel ’79
PALERMO «Le stragi del 1992 sono state un momento drammatico, ma anche di riscatto per le tante vittime di mafia precedenti a Falcone e Borsellino, fino a quel momento quasi ignorate e confinate nel dolore e nel ricordo dei familiari», spiega Selima Giuliano, figlia del commissario di polizia Giorgio Boris Giuliano, assassinato a Palermo il 21 luglio 1979; prima di lui, nello stesso anno, era stato ucciso il segretario provinciale della Dc Michele Reina, e successivamente — tra il ’79 e il 1983, ma prima e dopo l’elenco è ancora più lungo — il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre, il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Palermo decapitata dei suoi vertici politici, investigativi e giudiziari.
«Con Capaci e via D’Amelio è cambiato tutto», ha detto dal palco della commemorazione la più giovane dei tre figli di Boris Giuliano, che oggi ha 49 anni ed è soprintendente ai Beni culturali e ambientali del Comune di Palermo.
Perché dottoressa Giuliano?
«Prima il problema era esclusivamente dei morti ammazzati perché contrastavano la mafia e di noi familiari. Non c’era la reazione della società civile, ma un clima di omertà e indifferenza. Anche dopo la morte di Chinnici, nonostante nell’attentato morì pure il portiere del palazzo. Di mafia si parlava molto poco nelle scuole, io ho frequentato un istituto dei gesuiti dove la mia presenza era vissuta con un certo imbarazzo».
Adesso invece?
«Adesso se tra gli studenti c’è il nipote di una persona uccisa i professori sono contenti, perché è un’occasione in più per parlare di mafia. È una conseguenza della consapevolezza maturata nella popolazione palermitana dopo le stragi del 1992, quando i lenzuoli bianchi esposti alle finestre furono il segno visibile della rivolta dei cittadini contro la violenza e il terrorismo mafioso».
Lei come ricorda il 23 maggio 1992?
«Non avevo ancora vent’anni, ero a casa con alcuni amici e apprendemmo della strage dalla televisione. Fu un momento terribile, una sensazione di guerra. E ancor più, 57 giorni dopo, la morte di Borsellino. Imperdonabile. Tutti sapevano che la vittima designata era lui, ma fece la stessa fine di Falcone senza che lo Stato riuscisse a proteggerlo».
Due personaggi importanti per la sua famiglia.
«Certo, perché nel maxi processo istruito anche da loro furono condannati i mandanti del delitto di mio padre e in seguito l’esecutore materiale. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio scrissero che se le intuizioni di Boris Giuliano fossero state seguite prima e meglio, la lotta alla mafia avrebbe portato a ben altri risultati. Anche per questo provai una sensazione di rabbia vedendoli morire in quel modo. Ma non ho mai pensato che fosse tutto finito. Anche per via dell’immediata reazione dell’opinione pubblica, che ha provocato un’indignazione ormai inarrestabile».
Perché pensa che questo rappresenti un momento di riscatto anche per suo padre e le altre vittime di mafia?
«Perché da quel momento anche lui, come gli altri, ha cominciato a essere ricordato per quello che fu: un uomo delle istituzioni che combatteva la mafia non per sé, ma per lo Stato che rappresentava. Noi in famiglia abbiamo sempre vissuto con grande orgoglio il suo sacrificio, e la polizia ci è stata sempre vicina, ma per il resto non c’era partecipazione né consapevolezza. Perfino le commemorazioni ufficiali erano quasi un atto dovuto. Dopo le stragi lui e le altre vittime sono come riemerse dal buio, per quello che erano: persone che facevano semplicemente il loro lavoro, uccise spesso perché lasciate sole. E questo è stato un altro risultato ottenuto da Falcone e Borsellino con la loro morte, dopo che in vita avevano tentato di rendere giustizia a quelle vittime».
Dunque anche il maxi processo fu un momento di svolta.
Anche mio padre, come gli altri, ha iniziato a essere ricordato come un uomo delle istituzioni che combatteva per lo Stato
«Sì, ma sempre per una cerchia ristretta di persone. Ricordo bene le gabbie dell’aula bunker piene di imputati urlanti, e nella parte riservata al pubblico i loro parenti che gridavano allo stesso modo e i parenti delle vittime che guardavano sgomenti. I cittadini di Palermo non c’erano, come se quello che stava accadendo non li riguardasse». Oggi non succerebbe più? «Non credo, sebbene ci sia ancora tanta strada da fare. Tempo fa sono stata presentata a un rappresentante politico di una piccola cittadina che quando ha sentito il mio cognome ha chiesto se fossi parente del bandito Giuliano (ride, ndr), ma in generale c’è grande consapevolezza. E restano verità da scoprire, come le ragioni del depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Di mafia si parla e si deve continuare a parlare, anche grazie alle opere di tanti artisti contemporanei, di cui mi occupo direttamente nel mio lavoro».