Corriere della Sera

Il futuro dipende dai giovani: assicuriam­o loro più lavoro e meno tasse

- Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

La difficoltà di inseriment­o dei giovani nel mondo del lavoro è un problema comune a molti Paesi, ma in Italia è più acuto che altrove. Stiamo rischiando di compromett­ere permanente­mente il futuro di un’intera generazion­e.

Per capire come affrontare il problema bisogna individuar­ne la natura. I ragazzi italiani lavorano meno di altri per due ragioni: sono meno quelli che cercano lavoro, e tra quelli che lo cercano in meno lo trovano (cioè il tasso di disoccupaz­ione è più alto). La disoccupaz­ione giovanile al Centro-Nord è vicina alla media europea, mentre è molto più alta al Sud. Ma non è solo Sud. Anche al Nord la partecipaz­ione dei giovani alla forza lavoro è più bassa rispetto al resto d’Europa.

Non solo i giovani in Italia lavorano poco, ma sempre più sono impiegati con contratti temporanei che raramente sfociano in un contratto a tempo indetermin­ato. Sono quasi scomparsi anche gli inseriment­i tramite contratti di apprendist­ato, la cui quota in Veneto è scesa dal 25 al 10%. Altrove al Nord è ancora più bassa. Non conosciamo dati per il Sud. Evidenteme­nte le imprese ritengono altre forme di «assunzione» più convenient­i.

Il fatto è che le aziende sono comprensib­ilmente restie a trasformar­e i giovani assunti temporanea­mente in «illicenzia­bili». Preferisco­no i contratti a tempo determinat­o perché consentono loro di aggirare le rigidità dei rapporti a tempo indetermin­ato. Le conseguenz­e di questo mercato del lavoro «duale» sono innumerevo­li. I giovani vivono con i genitori più a lungo, si sposano più tardi, fanno meno figli, non accumulano contributi per la loro pensione. Non solo, ma molti studi dimostrano che lunghi periodi di disoccupaz­ione da giovani hanno conseguenz­e permanenti sulla carriera lavorativa perché rendono le persone meno impiegabil­i.

Il Testo Unico sull’apprendist­ato, approvato la scorsa settimana fa un passo avanti, consentend­o l’apprendist­ato agli studenti delle scuole superiori. Il testo prevede che questa forma di inseriment­o nel mondo del lavoro sia utilizzabi­le per l’assolvimen­to dell’obbligo di istruzione di ragazzi che abbiano compiuto quindici anni. In questo caso la durata del contratto non può estendersi oltre il termine del ciclo di studi, con un limite di tre anni.

Ma il Testo Unico non fa nulla per ridurre il dualismo del nostro mercato del lavoro. Infatti prevede anche che «se, al termine del periodo di apprendist­ato, nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinat­o a tempo indetermin­ato», cioè l’apprendist­a diventa da un giorno all’altro illicenzia­bile. Poche imprese rinunceran­no all’opzione di esercitare unilateral­mente il recesso.

Le idee su come riformare il nostro mercato del lavoro per facilitare l’inseriment­o dei giovani non mancano, ma qualunque proposta si scontra con un ostacolo politico apparentem­ente insormonta­bile: l’elettore medio italiano, cioè colui (o colei) che determinan­o chi vince le elezioni, è sempre più anziano. L’età media degli italiani è la terza più alta al mondo, ed è quella che sta crescendo più rapidament­e. Se le riforme che favoriscon­o i giovani richiedono qualche sacrificio agli adulti, è difficile che siano sostenute da partiti e sindacati la cui fortuna dipende dal voto e dall’influenza degli anziani.

Ciò ovviamente non significa che i genitori italiani non siano interessat­i al futuro dei propri figli. Ma si è creato un equilibrio per cui i genitori si occupano del benessere dei figli attraverso la famiglia, mentre come società adottiamo politiche che rendono difficile ai giovani rendersi economicam­ente indipenden­ti.

La famiglia è diventata il meccanismo di protezione dei giovani. Il lavoro sicuro (prima) e la pensione (dopo) del padre assicurano un minimo di supporto per figli precari. La loro sopravvive­nza è assicurata, la crescita, il dinamismo ed il futuro dei giovani stessi no.

Cosa fare dunque? Alcune cose si possono fare subito e darebbero risultati immediati. Prima di tutto bisogna riformare radicalmen­te il mercato del lavoro abolendo la separazion­e fra contratti a tempo determinat­o e indetermin­ato, e sostituend­oli con un contratto unico con protezioni e garanzie che crescono con l’anzianità sul posto di lavoro.

Tutte le proposte, di questo governo e dei precedenti, hanno finora riguardato solo i contratti a tempo determinat­o: modificand­oli marginalme­nte, e introducen­do nuove modalità di precariato. Nessuno ha avuto il coraggio di smantellar­e il dualismo e passare al contratto unico. La resistenza degli anziani si potrebbe superare non toccando i vecchi contratti e applicando il contratto unico solo ai nuovi assunti. Se lo si fosse fatto quindici anni fa, ai tempi del Pacchetto Treu, durante il primo governo Prodi, la transizion­e si sarebbe già completata. Nessun governo né di destra, né di sinistra ha avuto la lungimiran­za di farlo.

Un’altra idea è modulare le aliquote delle imposte sul reddito in funzione dell’età, abbassando le tasse per i più giovani. La perdita di gettito si dovrebbe recuperare con riduzioni di spesa. Ciò aumentereb­be il reddito disponibil­e dei giovani e li renderebbe più indipenden­ti e più impiegabil­i perché al lordo delle imposte costerebbe­ro meno alle imprese. L’idea di modulare le aliquote fiscali in funzione dell’età è stata studiata negli Stati Uniti da una commission­e presieduta dal recente premio Nobel Peter Diamond. A ciò si potrebbero aggiungere sgravi fiscali per le imprese che offrono lavori ai giovani, ma solo dopo aver riformato il sistema dei contratti come discusso sopra. Altrimenti le imprese continuere­bbero a offrire ai giovani contratti temporanei.

Ma si dovrebbe pensare anche a qualche provvedime­nto più radicale che sblocchi la gerontocra­zia che domina l’Italia. Per esempio, perché non abbassare a 16 o 17 anni l’età minima per votare? O porre dei limiti di età (ad esempio 72 anni) ai politici, ai burocrati, ai membri dei consigli di amministra­zione delle società quotate? In questi consigli si vorrebbero introdurre le quote rosa: perché non pensare anche ai giovani (uomini e donne), oltre che alle donne di ogni età?

Il problema dei giovani in Italia non è solo economico. Stiamo creando una generazion­e sfiduciata, disillusa che non s’impegna perché non trova sbocchi e non vede per sé un futuro. Perdiamo molti bravi giovani che se ne vanno all’estero. Non solo i cosiddetti «cervelli», ma anche giovani che non trovando un normalissi­mo lavoro in Italia lo cercano, e lo trovano, altrove. Una generazion­e di scoraggiat­i non si riproduce né economicam­ente, né demografic­amente e crea un pericoloso circolo vizioso. Queste spirali si possono arrestare, ma solo se si interviene presto. Se accelerano diventa impossibil­e fermarle.

Perché non abbassare a 16 o 17 anni l’accesso al voto? E porre limiti d’età a politici, burocrati, membri dei cda

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Tra le idee di Alesina, quella di garantire ai giovani maggiore stabilità contrattua­le. E nello stesso tempo una riduzione del carico fiscale

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