La Russia a confronto con l’Europa Successi e fallimenti dei Románov
Oggi in edicola con il quotidiano il secondo volume della serie sulle famiglie reali e signorili Pietro il Grande attuò una svolta modernizzatrice guardando a Occidente Lo scopo della dinastia era fare dell’impero una grande potenza mondiale
Èalla fine dell’epoca dei «torbidi» seguiti all’estinzione della casata dei Rjurikidi (8621598) che lo zemskij sobor — un’assemblea di stampo feudale — scelse come zar, nel 1613, Michail Románov, dal quale trae origine la famiglia di sovrani rimasta sul trono della Russia fino al 1917.
Nei manuali di storia moderna compare in modo iterativo il problema della relazione tra la collocazione geografica della Russia nella massa continentale euroasiatica e gli orientamenti della dinastia regnante, refrattaria a ogni asiatismo e aperta ad alleanze matrimoniali in area germanica, ma incapace di spostare l’asse della sua politica nello spazio europeo. A fondamento di tale relazione è posta la volontà di europeizzazione imposta da Pietro il Grande (1672-1725) e le resistenze da essa incontrate, a livello sia nobiliare che popolare, per le conseguenze che produceva nel tessuto connettivo della cultura nazionale e delle sue
istituzioni. Nella maggior parte dei casi la parola «europeizzazione» appare come sinonimo di una modernizzazione che non ammette deviazioni dal sistema autocratico.
L’apertura all’Europa è una strada obbligata per entrare, secondo le ambizioni della dinastia, nella cerchia delle potenze mondiali. Questo significa costruzione di un grande apparato statale e, soprattutto, militare in grado di far percepire, tanto all’interno quanto all’esterno, un Impero capace di agire verso occidente e verso oriente.
Artefice del modello storiografico fu lo scrittore Nikolaj Karamzin (1766-1826) che, da una posizione favorevole all’integrazione della Russia nell’Europa così come l’aveva intesa Pietro (un avvicinamento privo di negoziazioni sul principio autocratico), passò, dopo la rivoluzione francese, a un giudizio negativo su quell’esperienza, dando così inizio alla lettura conservatrice condivisa dal regime fino alla sua estinzione. Karamzin arrivò a sostenere che l’idea di ridisegnare la Russia per mezzo di riforme europee era stata un’«umiliazione» inferta da Pietro «all’orgoglio nazionale», avendo egli fatto dipendere la potenza del Paese dall’imitazione di sistemi stranieri. Lo stesso schema d’interpretazione si impose, quasi a chiudere il ciclo del dispotismo illuminato estraneo allo spirito russo, a proposito delle idee «illuministiche» a cui Caterina II (sul trono dal 1762 al 1796) sembrò voler adeguare la sua azione culturale e politica.
A Caterina succedettero imperatori che, in modo diversamente motivato, orientarono il discorso sul coinvolgimento della Russia nella storia delle grandi potenze dominanti militarmente ed economicamente il continente. Nel Manifesto del 13 luglio del 1801 Alessandro I adottò una posizione interlocutoria e proclamò il principio della neutralità armata: la Russia non entrava nel campo della conflittualità tra gli Stati europei, ma restava all’erta per difendere il paese da ogni aggressione, massimizzando i dispositivi militari e riducendo al minimo il peso della poche riforme d’ascendenza petrina. Era come credere che questa conflittualità, che si presentava in forma di lotta per l’egemonia economica, potesse restare circoscritta agli spazi occidentali e centrali dell’Europa, riposizionando la Russia in uno spazio proprio. L’aggressione napoleonica fece saltare ad Austerlitz (1805) lo schema della neutralità armata, ma la «grande guerra patriottica» con cui l’imperatore russo rispose all’aggressione dell’imperatore francese nel 1812 modificò sia il coinvolgimento della dinastia nella politica europea, che la consapevolezza di essere una grande potenza a livello mondiale.
Il riformismo residuo di Alessandro venne cancellato dalla forza con cui la dinastia si riorganizzò dopo il 1825, quando al trono salì Nicola I: la Russia divenne non solo uno Stato di polizia, ma si presentò all’Europa come il suo antimodello, quasi desideroso, rovesciando l’atteggiamento petrino, di essere oggetto d’imitazione se si voleva salvare il fondamento dell’antico regime.
Si potrebbe anche sostenere che il passaggio ad Alessandro II, promotore delle uniche grandi riforme che la dinastia abbia intrapreso, sia un originale adeguamento allo sviluppo per consentire alla Russia di restare una grande potenza. Ma il dibattito che si aprì nelle commissioni senatoriali mostra che i modelli ai quali guardare (dall’abolizione della servitù della gleba alla ristrutturazione del sistema amministrativo e giudiziario) erano stati tratti dall’archivio europeo e che, se c’era un’originalità, essa stava nel ridurne la portata e l’efficacia.
Dal momento in cui, con Alessandro III, si cancellò il tardo progetto costituzionale di Alessandro II e, con Nicola II, si riprodusse l’alternanza di aperture e chiusure alla domanda della società civile, si assiste al declino della dinastia che durante la Prima guerra mondiale scomparve dalla scena con la rivoluzione del febbraio 1917.
Nel 1801 Alessandro I proclamò il principio interlocutorio della neutralità armata
Con Nicola I la Russia si presentò all’Europa come se fosse una sorta di antimodello