Corriere della Sera

«Da Tokyo a New York quelle partenze da sogno»

Vegni, direttore del Giro: «Il ciclismo va esportato e promosso»

- di Marco Bonarrigo e Gaia Piccardi

SALÒ Nel lunedì in cui il Giro riposa (terzo e ultimo pitstop) per fare il carico di ossigeno verso le grandi montagne, l’unico che non si ferma è il suo direttore: «Si verificano le condizioni di sicurezza delle strade su Alpi e Dolomiti, dove si deciderà la classifica generale, si fanno meeting, si pensa intensamen­te al Giro 2023: le richieste sono tante, c’è già un bel disegno».

Mauro Vegni, classe ‘59, toscano di Cetona trapiantat­o a Roma, quartiere Centocelle («Nel periodo della mia gioventù da quelle borgate sono usciti artisti straordina­ri: frequentav­o lo stesso complesso scolastico di Claudio Baglioni, lui ragioneria, io liceo scientific­o, in piazza la sera cantava Michele Zarrillo, Eros Ramazzotti viene da Cinecittà: c’era fervore, sono stati anni importanti...»), sta al Giro come il regista Christof al «Truman Show»: della corsa rosa è demiurgo, responsabi­le, volto (molto) umano. «Senza il mio gruppo di lavoro non sarei nessuno», precisa con umiltà. Ma senza Vegni (ogni anno radiocorsa lo dà prossimo alla pensione, invece lui è sempre lì, sulla tolda), niente Giro.

Oggi si riparte verso l’Aprica con Carapaz leader, Mauro. È il Giro della rinascita dopo la pandemia, delle strade piene, delle folle in montagna. Ma come s’inventa un Giro d’Italia?

«Con pazienza, promuovend­o la ripresa dei territori e, quindi, del Paese. E tra mille difficoltà. Tre quarti dell’Italia confina con il mare, se vado all’estero mi serve un giorno di riposo in più che l’Uci mi vieta: non lo trovo giusto, anche perché l’estero ha una grande capacità di spesa».

Israele nel 2018, la prima partenza extraeurop­ea di una grande corsa a tappe battendo anche il Tour, è il fiore all’occhiello?

«Sì, fu un Giro importante che diede la misura di ciò che siamo in grado di fare. Ma la medaglia sul petto non è mia: è di tutta l’Italia. Quando parti con una crono attorno alle mura di Gerusalemm­e, cosa puoi pretendere di più?». Già, cosa?

«Vorrei essere andato di più in Sardegna, e non è detto che non lo farò. E c’è un luogo dove voglio assolutame­nte tornare prima di smettere: Venezia. Piazza San Marco, non il Lido».

Altre grandi partenze da sogno?

«Tokyo: sarebbe stato un Giro in preparazio­ne dei Giochi 2020, poi spostati dalla pandemia, ci siamo andati vicinissim­i. La Piazza Rossa, prima di questa maledetta guerra. New York: avevamo cominciato a parlare con l’allora sindaco Giuliani. La mia idea è che se vuoi promuovere il ciclismo lo devi portare in giro, non basta farlo vedere alla tv. Da cosa nasce cosa: dopo la partenza in Israele è nata la Israel, dall’Uae Tour sono scaturite due nuove squadre».

Il Giro più teso?

«Quello 2020, spostato a ottobre, in piena pandemia. Aver suggerito il protocollo da adottare al governo è un grande orgoglio. La conta dei positivi, i casi che crescevano, la corsa contro il tempo per arrivare a Milano prima del lockdown... Una tensione pazzesca. Ci eravamo chiesti se fosse giusto farlo: la storia ci ha dato ragione. Il messaggio era: lo sport è vita».

Il Giro più difficile?

«Nel 2013. La stagione iniziò con una Sanremo troncata dalla neve, cui seguì un Giro martoriato dal maltempo: saltò il Sestriere, il Galibier fu accorciato, Nibali vinse alle Tre Cime di Lavaredo nella bufera. Stavamo tutto il giorno attaccati al meteo, sperando che sbagliasse. Forti anche di quell’esperienza, abbiamo chiesto all’Uci il posticipo di una settimana della data d’inizio del Giro: salire sulle Alpi ai primi di giugno sarebbe tutta un’altra cosa. Aspettiamo la risposta».

E gli anni neri del doping? «Intanto ci tengo a precisare che, a parte Contador per il caso retrodatat­o del salbutamol­o, negli anni in cui l’albo d’oro del Tour è stato riscritto quello del Giro è intonso. Però è anche vero che il doping era andato troppo avanti, i corridori esageravan­o: bisognava fermarsi».

Ci sono stati anni in cui il Giro è stato troppo duro?

«È successo ma a me un Giro estremo non piace: non fa bene a chi partecipa, a chi lo segue, a nessuno».

Ma lei, Vegni, in bicicletta ci sa andare?

«Non distinguo le bici, i rapporti, le corone. Non ci capisco un fico secco! La mia grande passione è per l’organizzaz­ione. A Roma all’Epifania si faceva la corsa del giocattolo: ci si iscriveva consegnand­o un gioco anche usato ma funzionant­e, il ricavato andava all’infanzia abbandonat­a. Ho iniziato così».

E poi?

«Con il Giro ho cominciato nel ‘95, partenza da Perugia: avevo il compito di verificare cosa funzionava e cosa si poteva migliorare. Sono stato vice del patron Castellano fino al 2002, direttore operativo fino al 2011, direttore generale da lì in poi».

I campioni più carismatic­i? «Ne ho incontrati tanti, ma a impression­armi sono stati tre: Hinault che portai in udienza dal Papa, Contador di cui sono amico, Scarponi che mi è rimasto nel cuore: un adorabile guascone».

Chi l’ha fatta arrabbiare di più, invece?

«Il gruppo, quando è mal consigliat­o e non ragiona». Cosa invidia al Tour?

«Il coinvolgim­ento delle istituzion­i. Vorrei far crescere la potenza del Giro come strumento di promozione della nostra bellissima Italia. E allora ne approfitto: presidente Draghi, venga: l’aspetto in ammiraglia a Verona».

L’appello Al Tour le istituzion­i sono coinvolte: presidente Draghi, l’aspetto a Verona

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(Afp) Cerca il bis Richard Carapaz in maglia rosa: il corridore dell’Ecuador è il grande favorito per la vittoria finale, ha già conquistat­o l’edizione 2019

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