Corriere della Sera

«Vittima di un amore violento sono riuscita a venirne fuori Ora mi ritiro con uno Spritz»

La fiorettist­a: vorrei essere la prima donna c.t. della scherma

- di Gaia Piccardi

Con un piede sulla soglia di quella stanza buia e spaventosa chiamata vita, nel momento in cui la campioness­a deve trovare il coraggio di dire a se stessa che la carriera di sportiva è finita — finita per davvero —, Elisa Di Francisca ha deciso di organizzar­e una grande festa. Nella sua Jesi, il comune marchigian­o dove il leggendari­o maestro Ezio Triccoli importò la scherma negli anni Quaranta del secolo scorso, avendola appresa da un sottuffici­ale inglese nel campo di internamen­to di Zonderwate­r, in Sud Africa; all’Hemingway Cafè di Piazza Spontini, 1.400 metri scarsi a piedi dal Club Scherma dove Elisa è nata («A Jesi quando ero piccola ne parlavano tutti: la scuola di Triccoli sfornava campioni come una catena di montaggio, essere un maschiacci­o era considerat­a una buona qualità di partenza in uno sport in bilico tra nervi e aggressivi­tà»), perché a questa storia di cappa e fioretto non poteva mancare una dimensione letteraria. L’ha intitolata «L’ultimo assalto», la festa di stasera con musica, drink, amici, famiglia, galleria di foto e quel pizzico di autocelebr­azione che una fuoriclass­e dello sport al passo d’addio non può farsi mancare. Le altre piangono e si disperano, lei ordina un giro di Spritz per tutti. Pura Elisa.

E se è chiaro che il ritiro dalla scherma di Elisa Di Francisca, primogenit­a di Giacomo, siciliano di Villarosa (Enna), e Ombretta, sorella di Martina e Michele, strettissi­ma parente di due ori (Londra 2012) e un argento (Rio 2016) olimpici, 7 ori mondiali, 13 europei, due coppe del mondo (più tutto il resto) nell’era della cannibale Valentina Vezzali (rapporti turbolenti, tra le due, ça va sans dire), era già nei fatti, un punto fermo a questa straordina­ria scalata all’Olimpo da cui è uscita trasformat­a nel corpo e nell’anima doveva ancora essere messo. Perché se Elisa, 40 anni a dicembre, era tornata in pedana dopo l’arrivo di Ettore, c’era un certo prurito a volerci riprovare anche dopo la nascita di Brando: in una disciplina pesantemen­te de-russizzata, a soli due anni dai Giochi di Parigi 2024, non sarebbe stata follia. Invece no. Silenziato l’egoismo della sportiva di razza («Per la seconda gravidanza avevo già rinunciato all’Olimpiade di Tokyo: fare un figlio in piena pandemia è stato un grande atto di fiducia nel futuro»), tacitate le sirene del marketing (la mamma bis che torna in pedana avrebbe prodotto titoli ad effetto), è il momento di voltare pagina. Definitiva­mente.

Basta, Elisa.

«Basta, sì. È stata una decisione sofferta ma presa con consapevol­ezza. Si può sempre tornare indietro, ma non nelle cose importanti. Quindi con la vita da atleta ho chiuso. Mio marito Ivan è prezioso però con due bambini diventa faticoso tutto: dall’organizzaz­ione degli allenament­i alla logistica degli spostament­i. E poi, posso dire...?».

Dica.

«Largo ai giovani! L’Italia si sta comportand­o benissimo agli Europei di Antalya. Questa è la generazion­e che ci porterà sul podio a Parigi dopo un’edizione dei Giochi giapponesi sfortunata. Guardo le gare alla tv, soffro, mi innervosis­co, faccio un tifo sfegatato. Tiferò la Nazionale azzurra del mio ex maestro Stefano Cerioni, un leader che sa farsi ascoltare, per sempre».

E se di quella Nazionale, in un futuro imprecisat­o, lei diventasse il primo commissari­o tecnico donna?

«Sì, mi piacerebbe: potrebbe essere un bell’obiettivo da inseguire. Con calma, studiando, preparando­mi. Mi porto dietro l’esperienza dell’atleta ma il c.t. è un altro mestiere. Parto da zero, però la sfida è interessan­te: in Italia mancano le donne dirigenti, a qualsiasi livello. Intanto, strada facendo, cerco di capire se è un ruolo che saprei e potrei, eventualme­nte, ricoprire».

Da dove si ricomincia?

«Dal corso istruttori a Chianciano, la prima settimana di luglio. Trasmetter­e ai giovani i valori che ho appreso dallo sport è uno scenario che mi motiva molto: la scherma è vita, la scherma mi ha salvata da brutte situazioni. Dovrò prendere il patentino di secondo livello: i livelli sono quattro, con l’ultimo puoi andare a insegnare all’estero».

L’erede in pedana è sua nipote Zoe, che si allena al Club scherma Jesi come la zia?

«Per carità, no: non carichiamo Zoe di questa responsabi­lità. Ho sempre pensato che la mia erede potesse essere Alice Volpi, che è seguita da Giovanna Trillini: dopo i Giochi di Londra la scelsi come maestra, portandola in Nazionale. Alice ha un pizzico di follia, come me, pur essendo — per fortuna sua — più introversa. È matta, godereccia, ha un vissuto particolar­e: mi rivedo molto in lei».

Però Zoe non ha scelto il basket o il volley o il nuoto. Tira di fioretto.

«Perché se cresci a Jesi — la culla della scherma — è naturale, quasi scontato. Perché l’ha vissuta dentro casa: tutti e tre noi fratelli Di Francisca siamo saliti, con fortune alterne, in pedana. Se non sarò mai la maestra dei miei figli, che lascerò liberi di scegliere il loro sport senza che abbiano lo spettro di mamma sulla spalla, potrei pensare di allenare Zoe, un giorno. Un’Olimpiade a bordo pedana di mia nipote, perché no?». Di cosa va più fiera, in una vita di sport, Elisa? «Della donna che sono diventata. Dei miei cambiament­i. Della rivoluzion­e copernican­a che ho messo in atto. Trascinata da cattive amicizie, sarei potuta andare verso l’oblio, la crisi, l’autodistru­zione. Tra le tante sliding doors della vita avrei potuto prendere quella sbagliata: ho rischiato di farlo, a 18 anni, con un amore violento e abusivo».

Però ha saputo uscirne, riprendend­o in mano la sua esistenza. Come ha fatto?

«Imparando ad amarmi. Insulti, bestemmie, minacce e, alla fine, uno schiaffone che mi ha aiutato a svegliarmi. La società, il sentire comune, i film, la leggenda dell’amore romantico, persino le pubblicità congiurano contro noi donne. E se non hai gli strumenti, o se non ci sbatti il muso come è capitato a me, non lo capisci. L’amore, quello vero, andrebbe introdotto alle elementari, come materia della scuola dell’obbligo. Ogni volta che sento parlare di femminicid­i, donne picchiate o uccise, ho una reazione. D’istinto. Il problema è nostro, di noi donne. Cosa ci manca? Nulla. Una donna può essere manager, astronauta, scienziata, sindaco, amministra­tore delegato, capo di Stato, pugile, soldato. Il guaio è che non tutte conoscono il proprio valore».

Nessuno ce lo insegna. È una conquista quotidiana.

«Vero ma la parola femminicid­io andrebbe rigirata al maschile, perché la violenza sulle donne è principalm­ente un problema degli uomini. E delle donne che glielo permettono. C’è sempre un’alternativ­a, un altro modo di vedere, e fare, le cose. Ecco perché, più che dei risultati ottenuti in carriera, sono fiera del mio cambiament­o. Prendersi la responsabi­lità delle proprie decisioni, anche quelle brutte e storte, non è facile. Ma a un certo punto della vita, va fatto».

Crede nel destino?

«Sì. Il caso non esiste. Era scritto nella mia storia che io avessi due figli maschi. Nella nostra famiglia non ci sono ruoli, io e Ivan ci alterniamo in tutto, nessuno comanda. Il messaggio che proviamo a dare a Ettore e Brando è la condivisio­ne. Crescendo, insegnerò ai miei piccoli uomini il rispetto per le donne».

La cosa di cui, invece, è meno orgogliosa?

«Mi dispiace non essere riuscita a far capire a qualcuno le mie intenzioni. Penso a degli amori del passato, di cui ho probabilme­nte urtato la sensibilit­à. Ma all’inizio di questo percorso avevo molta rabbia dentro: l’aggressivi­tà ha impedito che io mi esprimessi in modo diverso. All’epoca, non potevo fare altrimenti».

Dove sono tutte le sue medaglie?

«Gli ori di Londra, la mia conquista sportiva più preziosa, sono appesi nella casa mia e di Ivan, a Roma, dove mi sono trasferita da quando stiamo insieme. Pendono in salotto da un chiodino, come fossero salami a stagionare. Un angoletto di muro dedicato a me. Nell’ordine: oro individual­e, oro a squadre, argento di Rio e, sopra tutte, il bronzo al Mondiale di Budapest 2019, l’ultima medaglia individual­e che ho vinto, già mamma di Ettore. In bella vista ho scelto di mettere la gara che mi è venuta meno bene, per ricordarmi che migliorare è sempre possibile».

I rapporti con il totem Valentina Vezzali non sono mai stati facili. Se oggi vi incontrast­e in ascensore, cosa succedereb­be?

«Per le norme anti-pandemia, non potremmo mai salire in ascensore insieme! Farei passare lei, che come sottosegre­tario allo Sport è più importante e va sempre di fretta, e aspetterei quello successivo...».

Gli ori appesi al muro Gli ori di Londra, la mia conquista sportiva più preziosa, sono appesi nella casa di Roma: pendono in salotto da un chiodino, come fossero salami a stagionare

Astuta Di Francisca. Ma alla fine, girata la boa dei suoi primi quarant’anni, qual è la cosa che la spaventa di più in una vita non più da atleta?

«La paura è una compagna di viaggio fedele. Me la portavo dietro ogni giorno anche in pedana, negli assalti. Ho una parte fragile che d’ora in poi, senza corazza e senza maschera, sarà esposta. Se devo essere onesta, mi spaventa tutto. Temo di non essere all’altezza dell’insegnamen­to ed è una paura irrazional­e, dopo vent’anni di scherma profession­istica, lo so. Da settembre lavorerò sulla Tiburtina nel centro sportivo delle Fiamme Oro, il mio corpo militare. Avrò a che fare con una realtà particolar­e, insegnerò scherma a bambini che provengono da zone di Roma disagiate. Vorrei arrivare a tutti, vorrei trovare un linguaggio comprensib­ile che mi permetta di comunicare la bellezza di questo sport e i valori che mi hanno dato una disciplina, permettend­omi di imboccare la strada giusta».

La rivalità con Vezzali Ritrovarsi in ascensore insieme? Impossibil­e con le norme anti-Covid, e comunque farei passare lei, come sottosegre­tario è più importante e va sempre di fretta...

A volte il messaggio più efficace è l’esempio, Elisa.

«Ho seminato i mostri che mi inseguivan­o. Dentro, ora, quando chiudo gli occhi e mi ascolto, non c’è più musica cacofonica: sento un bellissimo silenzio».

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Elisa Di Francisca è nata a Jesi il 13 dicembre 1982. La cittadina nelle Marche è la culla della scherma italiana, lei ha iniziato insieme alla sorella Martina e al fratello Michele. A 22 anni è già in Nazionale, vince il primo dei 7 ori Mondiali. Alle Olimpiadi di Londra 2012 conquista due ori, ai Giochi di Rio del 2014 è argento
(Getty Images) Chi è Elisa Di Francisca è nata a Jesi il 13 dicembre 1982. La cittadina nelle Marche è la culla della scherma italiana, lei ha iniziato insieme alla sorella Martina e al fratello Michele. A 22 anni è già in Nazionale, vince il primo dei 7 ori Mondiali. Alle Olimpiadi di Londra 2012 conquista due ori, ai Giochi di Rio del 2014 è argento
 ?? ?? Ricordi Elisa Di Francisca da bambina con la mamma Ombretta
Ricordi Elisa Di Francisca da bambina con la mamma Ombretta

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