Corriere della Sera

La voce di Patrizia Cavalli Infinito canzoniere d’amore

- di Paolo Di Stefano

Forse intorno a nessun poeta della sua generazion­e come intorno a Patrizia Cavalli si è alimentata l’aura della leggenda, una sorta di culto d’altri tempi anche presso il lettore comune, che ha mostrato di gradire la sua voce superando l’arcigna diffidenza attuale per la poesia. L’ha scritto giustament­e Roberto Galaverni recensendo l’ultima sua raccolta, Vita meraviglio­sa (2020). Alfonso Berardinel­li, un critico molto severo, per non dire impietoso, verso la confusa contempora­neità poetica ha sempre posto Patrizia Cavalli tra i valori più sicuri del nostro tempo: quasi un modello di «naturalezz­a espressiva» in un’epoca afflitta dalla posa dell’oscurità opaca e intellettu­aloide.

Disse di aver scritto le prime poesie a sei anni per Kim Novak, di cui era innamorata. Ma in effetti, fin dal libro d’esordio (Le mie poesie non cambierann­o il mondo è del 1974), Patrizia Cavalli si distingue sia rispetto alla temperie ancora vitale (o già morente) dello sperimenta­lismo neoavangua­rdista sia dal cosiddetto neo-orfismo entro cui si iscrivevan­o tanti suoi coetanei. Si distingue per una spontaneit­à dall’andamento diaristico, colloquial­e e ironico, nato e cresciuto sotto l’egida di Elsa Morante, cui è dedicato l’esordio e alla quale si deve l’imprinting e la benedizion­e a futura memoria: «Patrizia è la poesia», disse. Senza dimenticar­e l’accostamen­to frequente (e inevitabil­e) a Sandro Penna oltre che, naturalmen­te, alla poesia «onesta» di Umberto Saba.

Altri suoi estimatori entusiasti sin dalla prima ora sono Cesare Garboli, Alberto Asor Rosa e il filosofo Giorgio Agamben, che ha parlato di «poeta disincanta­to e quasi preistoric­o, maestro incomparab­ile dei metri e delle rime interne, sovranamen­te privo di scrupoli morali...». Per questi critici la fedeltà a sé stessa è una ammirevole coerenza estrema nel fondere disperazio­ne e umorismo, mentre per altri è pura ripetizion­e e in sostanza deficit di ispirazion­e.

Non è escluso che tra gli inni e le eccessive diminuzion­i, la lettura più corretta si trovi a dare ragione ora agli uni ora agli altri, oppure stia nel giusto mezzo. Per esempio quella di Enrico Testa, che riconosce nell’opera di Patrizia Cavalli un «arguto e feriale canzoniere d’amore» in cui si descrivono analiticam­ente gli opposti: la vicinanza e il distacco, la presenza e l’assenza, il desiderio e il tradimento, l’istinto e il raziocinio, soprattutt­o la sincerità e la finzione.

Nata nel 1947 a Todi, Patrizia Cavalli si trasferisc­e già nel 1968 a Roma, dove è morta ieri dopo lunga e feroce malattia.

A Roma ha studiato, laureandos­i in filosofia e dedicandos­i poi alla traduzione di testi teatrali (per Carlo Cecchi tradusse l’Anfitrione di Molière nel 1981 e La tempesta di Shakespear­e nel 1984, per il Teatro dell’Elfo di Milano nel 1988 Sogno di una notte di mezza estate). Ha collaborat­o per la Rai con due radiodramm­i, La bella addormenta­ta (1975) e Il guardiano dei porci (1977). Il cielo è la sua seconda raccolta poetica, che arriva solo nel 1981 e che verrà riunita con la prima in un volume antologico del 1992, con l’aggiunta di una terza tappa, L’io singolare proprio mio, dove risalta ancora di più la convivenza di costruzion­i quasi labirintic­he (anche sintattica­mente) e di soluzioni fulminanti, arguzie epigrammat­iche: «Penso che forse, a forza di pensarti/ potrò dimenticar­ti, amore mio».

Pur riconoscen­do che «non c’è niente di naturale nella letteratur­a», distinguev­a, Patrizia Cavalli, tra la rapidità di alcuni suoi versi e il «ragionamen­to ispirato» di altri: «Io scientific­amente mi domando/ come è stato creato il mio cervello,/ cosa ci faccio io con questo sbaglio./ Fingo di avere anima e pensieri…». In realtà, a volte sembra che la sua poesia voglia abbandonar­e il racconto di un io privatissi­mo, come in Sempre aperto teatro (1999), ma per ritornarvi quasi ossessivam­ente formando una sorta di commedia di «crudeltà e spavalderi­a» (Berardinel­li) tutta interiore, che se gioca abilmente a cambiare le forme utilizzand­o la tradizione con grande consapevol­ezza e spingendos­i sempre più verso il poemetto, lascia inalterati i motivi di fondo. La personale «stanza della tortura» di Patrizia Cavalli è fatta di rime e di endecasill­abi ora facili ora angosciosi, da cui non si vede via d’uscita se non attraverso il gioco o l’acrobazia spettacola­re delle parole: «Mi fingo morta, e sono già risorta. / Ma almeno per un po’ ti stupirai?».

Stupì nel 2019 pubblicand­o una raccolta di prose («una storia morale parallela, a rovescio»), intitolata Con passi giapponesi, con cui entrò nella cinquina del Campiello. Intervista­ta da Roberta Scorranese, due anni fa, disse: «Non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplender­e».

Tradusse Shakespear­e e Molière. Fu finalista al Campiello con una raccolta di prose

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Patrizia Cavalli, 1947-2022 (foto Ansa / Andrea Merola)

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