L’italiana arrestata a Zanzibar: «Adesso l’incubo è finito»
Francesca Scalfari e il marito rilasciati su cauzione. «Infondata l’accusa di riciclaggio». Il pm fa appello
«A che ora sono uscita di cella? Un’ora fa, forse due o tre, non lo so, ho perso la cognizione del tempo. Mi sono fatta sei docce da quando sono fuori, ma mi sento ancora addosso l’odore di fogna». Ha la voce commossa e a tratti interrotta dalle lacrime Francesca Scalfari, l’italiana detenuta a Zanzibar per 17 giorni con il marito Simon Wood.
Ieri sono stati rimessi in libertà: in attesa del processo, l’Alta corte dell’arcipelago tanzaniano ha ritenuto infondate le accuse di riciclaggio che li avevano portati in carcere. Per questo capo di imputazione nel Paese non è prevista la libertà su cauzione, ma ora il giudice lo ha fatto decadere stabilendo che i tre movimenti bancari ritenuti sospetti erano semplici trasferimenti di denaro tra due conti correnti regolarmente intestati alla società del Sherazad Boutique Hotel. Un resort che prometteva vacanze da favola come quelle raccontate da Sherazade nelle Mille e una notte, avviato in società con un’altra coppia italiana, i Viale. Le indagini sui conti correnti che hanno portato all’arresto sono partite da una denuncia fatta alla polizia proprio dagli ormai ex-soci che si sono dichiarati danneggiati da un’operazione di trasferimento delle loro quote. Una denuncia che, sottolineano, non conteneva le accuse di riciclaggio. In realtà «l’operazione di trasferimento era stata autorizzata da una sentenza del 2017 dell’Alta Corte di Zanzibar e poi registrata alla Camera di commercio locale», riferiscono i legali di Scalfari e Wood.
Dopo il verdetto Francesca e Simon sono stati rilasciati su cauzione. La vicenda giudiziaria non è infatti ancora chiusa: il pm ha già deciso di ricorrere in appello. E poi restano le altre accuse. «Cinque ciascuno — precisa Manuela Castegnaro, l’avvocata che ha difeso la coppia con due legali tanzaniani — ma ora potranno difendersi da persone libere. In carcere era complicato parlare con loro».
In cella Francesca era con altre detenute. «In sei in non più di sette metri quadrati, ragazze che aspettano una sentenza da due o tre anni. L’incubo peggiore? Essere separata da mio figlio. L’altro giorno quando hanno rinviato l’udienza mi è cascato il mondo addosso, sembrava che si stesse avverando quello che i reclusi ti raccontano: “cercheranno di diluire i tempi all’infinito e la gente finirà per dimenticarsi di voi”. Sono uscita dall’inferno, ora che faccio? Ho in testa quelle ragazze, staranno festeggiando: con me fuori sanno di avere qualcuno che lotterà per loro».