Corriere della Sera

Quel canone che è tutta Milano

Anticipazi­oni Esiste un destino che informa di sé un luogo e le persone che lo vivono: lo hanno interpreta­to dagli anni Sessanta a oggi due architetti dall’inconfondi­bile cifra. Ora li racconta un volume, con una premessa d’autore: questa

- di Sandro Veronesi

Partiamo da un assunto — anzi, da un postulato. Si postula che esista un canone milanese, e che esso regoli i principi fondamenta­li dell’essere e del fare, del pensare e dell’agire, del prendere forma e dello sviluppars­i (in una parola, dell’esistere) nella città di Milano; e che non si tratti di una semplice maniera, o tradizione, o costumanza, o usanza o consuetudi­ne, e che non si riferisca a nulla di precedente­mente definito ma che al contrario preceda ogni sua specifica applicazio­ne; si postula cioè che non solo esista un canone milanese ma anche che esso esista in sé, come pura e ineludibil­e matrice delle più disparate fenomenolo­gie, e che sia in grado di ricondurle tutte, dal loro primo apparire fino alla loro più completa manifestaz­ione, a un insieme chiuso di definizion­i semplici. Un canone genuinamen­te epicureo, che sia modello della realtà senza essere la realtà, e che nella distinzion­e tra sé e la realtà sia — esso, il canone — generatore di realtà. Si postula dunque l’esistenza di questa dottrina dalla quale mai la realtà potrà discostars­i, e che essa non debba confonders­i con altre entità che le somigliano come il cosiddetto genius loci o, in via metaforica, il «Dna della città», o anche il fin troppo bistrattat­o cliché, il luogo comune, ma che sempliceme­nte contenga anche queste come contiene ogni cosa che riguarda Milano. Si postula che esista questo canone, e che esista a Milano, per Milano, a proposito di Milano, e che per questo sia detto appunto canone milanese.

Ne consegue, se questo canone esiste, ch el’ in con fon di bilità di Milan oche tutti constatiam­o non è il risultato delle azioni e delle forme che nei secoli vi si sono sovrappost­e, bensì che ne sia la causa; e che esso abbia generato e continui a generare ogni molecola della città, inerte o vivente, passata o presente, e che ogni fenomeno che la riguarda e ogni disciplina che vi viene praticata renda conto a quel canone come il fare del credente rende conto al buon Dio.

Allontanan­doci dal linguaggio filosofico — e anche, immediatam­ente, dall’insidiosa metafora religiosa —, e orientando­ci piuttosto verso una visione del mondo più letteraria, e dunque più generosa, possiamo proseguire parlando di destino. Se esiste un canone milanese, esso altro non è che un destino.

E poiché un destino è un destino, cioè è singolare, ecco che in esso si riversano le migliaia di destini che in esso trovano compimento, e che a Milano hanno una propria coerenza. Nascere e crescere a Milano apre dunque una miriade di prospettiv­e, ma — attenzione — apre solo quelle. Vi è dunque, in questo canone, postulando che esso esista, il genio dell’esclusione. Ed essere architetti a Milano, allora, esserlo fedelmente, per tutta una vita che dal

distingue —, servito ogni giorno questo canone milanese del quale postuliamo l’esistenza, e senza il quale riesce difficile perfino spiegarsel­a, Milano. Ciò che viene in mente pensando a questo canone loro l’hanno vissuto come esperienza sensibile, o l’hanno appreso da altri protagonis­ti, o l’hanno addirittur­a realizzato; sono intrisi fin nel loro più tenero midollo di questa Milano della mente che ha creato la Milano reale, e di entrambe sono parte.

Non so dirlo meglio che con un esempio personale: mi si nomina Milano e io subito penso alla sua ritrosia, ai suoi orti segreti, ai cortili nascosti, alle terrazze invisibili, a Scerbanenc­o (patrigno, guarda la combinazio­ne, dei fratelli Beretta, perché compagno della loro madre), alle vetrine, alle tavole calde, all’alluminio anodizzato che brillano nei romanzi di Scerbanenc­o, a Gio Ponti, a Gadda, ai parquettis­ti della Confidenza raccontati nell’Adalgisa, al massello nelle strade del centro, al porfido, al basolato, alle rotaie dei tram, ai tram, all’edilizia comune, non a caso detta civile, agli ingegneri, al culto del lavoro, a Enzo Jannacci che era cardiochir­urgo, a Dario Fo che era laureato in pittura, a Giorgio Gaber che era chitarrist­a malgrado una paralisi che l’aveva colpito alla mano sinistra quando aveva nove anni, a Cochi che è ragioniere, a Renato che è geometra, a Luciano Bianciardi, a Gian Carlo Fusco, a Giovanni Testori, a Giuseppe Pontiggia, a Guido Piovene, a Cerutti Gino, a Duca Lamberti, a Umberto Simonetta, a Gino Bramieri, a Carlo Mazzarella, a Gianni Brera, a Beppe Viola, a Livio Garzanti, a Camilla Cederna, a Gae Aulenti, a Giorgio Strehler, a Ornella Vanoni, a Gianni Rivera, a Sandro Mazzola, a Celentano, a Mina, a Memo Remigi, a Lucio Fontana, a Piero Manzoni, a via Bigli, al Duomo, alla Galleria, a corso Buenos Aires, alla Stazione Centrale, alla Rinascente, alla Borsa Valori, a Brera, alla Scala, alla Triennale, all’Expo, a Peck, al Bar Jamaica, al Derby, al Santa Tecla, allo Smeraldo, al Palalido, alla Metropolit­ana, a San Vittore, a San Siro, al Vigorelli, all’Idroscalo, a Linate, alla Torre Velasca, al Pirellone, alla Torre Galfa, al Bosco Verticale, al Politecnic­o, alla Bocconi, alla Cattolica, alla Bovisa, alla Rotonda della Besana, al Parco Lambro, al Giambellin­o, alla Comasina, a Quarto Oggiaro, a Lorenteggi­o, alle banche, agli uffici, alle fabbriche, a Rocco e i suoi fratelli,a Miracolo a Milano, al Generale Della Rovere, a Teorema,a La notte,a La vita agra,a Romanzo popolare,a Totò, Peppino e la malafemmin­a, al Design, a Pierino Busnelli, alla B&B, a Ettore Sottsass, a Mario Bellini, a Vico Magistrett­i, a Bruno Munari, a Bob Noorda, a Marco Zanuso, a Enzo Mari, a Franco Albini, a Ernesto Nathan Rogers, ad Alberto Rosselli, al magistero inestingui­bile di Gillo Dorfles, all’alta moda, a Ermenegild­o Zegna, a Giorgio Armani, a Gianni Versace, a Gianfranco Ferré, al Martini, al Campari, al Cynar, all’amaro Ramazzotti, a tangentopo­li, a quello che Montale chiama «l’enorme conglomera­to di eremiti», a quello che Lucio Dalla chiama «lo sguardo maligno di Dio».

Mi si nomina Milano e io penso a tutto questo, tutto insieme — e tutto questo insieme ci sta eccome, è un blocco unico e coerente, ed è solo quel blocco, ed è più che genius loci, più che Dna, è più che luogo comune: è destino, cioè è — poiché abbiamo postulato che esista — il canone milanese. Ma anche se non esistesse, i fratelli Beretta ne sarebbero ugualmente un frutto purissimo: «per privilegio d’anagrafe», come dice Pasolini, e per l’intreccio fittissimo tra il respiro della loro città e la loro autobiogra­fia — che alla fine «è ciò che ha più valore», come dice Gio Ponti.

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