Stajano: lotto ancora per un’Italia migliore
Lo scrittore premiato con il Campiello alla carriera «Viviamo nella provvisorietà, tutto si attorciglia La memoria è dolorosa e faticosa, perciò è rifiutata»
La vita, i libri, il coraggio civile dell’autore di «Un eroe borghese» «Ma la speranza non muore, questo è un Paese ricco di energie»
«Guardi cosa ho trovato, una decina di giorni fa». Da una cartellina tira fuori una dozzina di fotografie. Immagini in bianco e nero, coi bordi bruniti. Piccolo formato, come s’usava un tempo. Corrado Stajano, 91 anni, scrittore, giornalista, narratore dell’anima profonda e sanguinante della Repubblica, sostiene in mano le foto per un attimo. Poi le appoggia sulla scrivania, una a una. «Questo è mio padre». L’istantanea successiva ritrae soldati in una trincea. In quella dopo si riconoscono una riva, un pontile, un bacino d’acqua. Sul dorso, una didascalia scritta a mano, sbiadita: «Ponte sul fiume Dnepr». La data, 1941. «Mio padre era un militare, fece la ritirata di Russia, poi finì a Mauthausen. Li conosco tutti, e li ricordo ancora, i luoghi dell’Ucraina». Quelli che oggi sono tornati in cronaca, geografia della nuova guerra, dei bombardamenti. Si dipana così un filo all’improvviso, in questa casa piena di libri vicino a piazza della Conciliazione, a Milano, sulla scrivania dove ieri mattina Stajano sistema quelle antiche fotografie: sullo stesso piano di lavoro, in un angolo, sono sistemati gli ultimi due numeri della rivista «Limes» (La cortina d’acciaio e Il caso Putin). Lo scrittore sorride, con un accenno di meraviglia malinconica: «Strani percorsi fanno la storia e la memoria a volte, non è vero?».
La risposta è implicita, ma la riflessione ha un peso specifico moltiplicato se a pronunciarla è lo scrittore che della cura, dell’approfondimento, dello scavo e della conservazione della memoria ha fatto una missione civile e letteraria. «Il fondo di tutto il mio lavoro, sempre, è stato in due parole: giustizia e libertà», riflette Stajano. Nel punto in cui tutto questo si condensa scorrono ora le motivazioni per le quali, il 3 settembre, ritirerà il premio speciale alla carriera della Fondazione Campiello.
Stajano si alza per un attimo dalla sedia, fa appena un passo, allunga la mano su uno scaffale della libreria e afferra un volumetto: Senso, la novella di Camillo Boito scritta nel 1883. «Ce l’ho sempre qui vicino». Il gesto accende di nuovo un flusso di memoria, con un richiamo di coscienza civile: «Questo premio Campiello — dice lo scrittore — mi riempie di letizia. Per il suo prestigio e la sua autorevolezza. E per l’alta qualità culturale della giuria. Venezia, poi, con il suo fascino, che fa da sfondo alla scena di un film di Luchino Visconti, Senso, che mi è rimasta nel cuore: si svolge proprio al teatro La Fenice, dove a settembre avverrà la premiazione. Siamo nella primavera del 1866, alla vigilia della liberazione dall’Austria. Sul palcoscenico, Il trovatore di Verdi. La platea è gremita di ufficiali austriaci con le loro giubbe bianche. A un certo momento dai palchi, dal loggione cala sulla platea una pioggia di mazzetti di fiori tricolore e di volantini bianchi, rossi e verdi. E qualcuno si posa anche sulle uniformi. Emozionante, impagabile. Forse sono anch’io uno di quei volantini, che ha lottato tutta la vita per un’Italia migliore».
Migliore è aggettivo che, se applicato a un tempo storico, implica un’idea di progresso, di sviluppo. E dunque è d’obbligo, per chiedersi se oggi viviamo in un’«Italia migliore», tornare all’epoca de Il sovversivo, il libro uscito nel 1975 da Einaudi, che racconta la vita e la morte di Franco Serantini, orfano che perse anche la madre adottiva, e che al ventesimo anno della sua esistenza, solo come sempre era stato, sul Lungarno di Pisa, durante una manifestazione degenerata in pesanti scontri, venne massacrato in strada da un gruppo di poliziotti, e si spense in carcere senza giustizia e senza cure il 7 maggio del 1972. «Tra i miei libri è quello che amo di più — ricorda Stajano — scriverlo fu una necessità che si impose con la forza dell’istinto, andai a Pisa per mesi, conosco ogni palmo di quel Lungarno. Il libro ha venduto moltissimo, forse 600 mila copie». E oggi, quante ne venderebbe? «Bah... forse seimila?». Ma dunque, al di là di quanto possa o non possa vendere un libro (ma è un aspetto che comunque conta, per raccontare la società), in che democrazia viviamo? Che Italia è, rispetto a quella nella quale «la radio quasi ogni giorno, alle 8 del mattino, dava notizia di un morto per terrorismo su un marciapiede»?
La sensazione di Stajano è «che non ci siano più “i nostri”. Regna la provvisorietà. C’è stata la pandemia, ora c’è la guerra in Ucraina, che con la pandemia non c’entra nulla, ovviamente. Ma in qualche modo invece c’entrano, nell’anima delle persone. Tutto si attorciglia».
Una provvisorietà sulla quale pesa la progressiva diluizione della memoria, che sgocciola via dalla coscienza civile: «La memoria è dolorosa, è faticosa, per questo viene rifiutata. Milano ad esempio aveva la fabbriche, un mondo che io conoscevo bene, studiavo, volevo comprendere. C’era una classe operaia attrezzata, quella della Pirelli, della Breda, della Falck, della Magneti-Marelli. E poi c’era la parte più avveduta, colta e attenta della borghesia. Questa è la composizione che ha tenuto in piedi la città. Le fabbriche erano scuole. Il giorno dei funerali per le vittime di piazza Fontana, in piazza del Duomo, il servizio d’ordine non lo faceva la polizia, lo fecero gli operai, arrivati a piedi da Sesto San Giovanni. La fine della classe operaia è stata letale. Il tessuto sociale era più alto, aggregato, meno egoista. Oggi, nel senso profondo del termine, non ci sono neanche più gli oratori. Ma la speranza non muore, questo è un Paese ricco di energie positive, ci sono persone straordinarie, anche nei piccoli centri, solo che non si riesce a dar
Milano
C’era una classe operaia attrezzata. E c’era la parte più avveduta della borghesia. Questa composizione ha tenuto in piedi la città
loro valore: perché manca la politica».
La storia dell’Italia che è stata si compone anche scorrendo la bibliografia delle opere di Stajano, nella stagione in cui pubblica Africo (1979, narrazione e inchiesta su un territorio di ’ndrangheta e povertà), L’Italia nichilista (1982, sul caso di Marco Donat Cattin), fino a Un eroe borghese del 1991, uscito dodici anni dopo l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli: «Venne ucciso non lontano da dove vivevo all’epoca. Iniziai a mettere via carte, appunti, materiale. Dieci anni più tardi iniziai a scrivere. Il sovversivo è il libro della passione, Un eroe borghese è il libro del dovere». Forse tutti quei testi andrebbero ripresi in mano, e analizzati nella loro qualità narrativa, da chi oggi per puro intento di marketing culturale sostiene che in Italia la grande non-fiction novel sia un fenomeno di anni recenti.
Poi è venuta la «seconda stagione» nella produzione di Stajano, quella di una narrazione meno legata all’inchiesta, ma più al flusso, «sul modello di Benjamin», come le passeggiate per Milano alla ricerca della memoria della metropoli in La città degli untori (2009), e poi La stanza dei fantasmi (Garzanti, 2013), fino a Sconfitti (il Saggiatore, 2021). Sta tutto riassunto nella parole di Walter Veltroni, presidente della giuria dei letterati del Campiello: «Stajano ha il merito di aver portato la grande letteratura civile nelle case degli italiani. Per queste ragioni il premio, che iniziò il suo cammino con Primo Levi, nel sessantesimo della sua fondazione vuole onorare il lavoro, la vita, la qualità letteraria, il coraggio civile di Corrado Stajano».
Vicino alla finestra del giornalista/scrittore, in piena luce, sta appesa proprio una sua foto con Primo Levi: «È stato un maestro per me, era un uomo ordinatissimo, frequentavo la sua casa regolarmente, ricordo con dolore l’atrio del palazzo, le scale, il luogo in cui poi si è ucciso». Tra gli altri uomini e intellettuali che più hanno contribuito alla sua formazione cita «Elio Vittorini, uomo gentilissimo fin da quando ebbi l’ardire di presentarmi a casa sua e bussare per consegnargli i miei primi racconti. E poi il banchiere umanista Raffaele Mattioli, Cesare Segre, Cesare Garboli». Gli scrittori della formazione sono stati «Rilke, Joyce, Proust, Alain-Fournier». Ed è come un filo che trova il suo giusto nodo: «Sono scrittori della memoria».
Ancora dal tavolo, tra le tante matite colorate e perfettamente allineate, scostata rispetto alla cartellina con le foto di guerra del padre, lo scrittore solleva una scheggia d’acciaio: «Mi sfiorò durante i bombardamenti del 1944, a Cremona. La raccolsi e la portai a casa. Ho perso moltissimi oggetti durante i traslochi, ma questa no, l’ho tenuta sempre con me». Oggetto di memoria: privata e pubblica. La scheggia ha bordi taglienti.
Primo Levi che frequentavo regolarmente, Elio Vittorini, e poi Raffaele Mattioli, Cesare Segre, Cesare Garboli