Corriere della Sera

Buzzati, un mistero elegante

Rigore e fantasia nella vita e nell’opera Ritratto dell’autore scomparso 50 anni fa

- di Lorenzo Viganò

Quando si parla di Dino Buzzati è impossibil­e separare l’uomo dalla sua opera. Il lavoro — di giornalist­a, scrittore, pittore, drammaturg­o, poeta — accende continuame­nte una luce sulla sua vita, la quale, insieme con una personale visione del mondo, costituisc­e il dna della sua poetica. Non si può capire un aspetto senza conoscere l’altro, tanto si sono sempre fusi e alimentati a vicenda. Ispirazion­e e racconto. I libri, i quadri, gli articoli scritti in oltre quarant’anni di militanza al «Corriere della Sera», dove entrò nel 1928, a 21 anni e vi rimase fino alla scomparsa avvenuta cinquant’anni fa, sono lo specchio della sua complessa e intricata personalit­à. Nascono da quelle paure, timidezze, ambizioni che lo hanno accompagna­to fin da bambino; prendono corpo dai suoi fantasmi, da una predisposi­zione al fantastico che si è sviluppata nell’infanzia e nell’adolescenz­a, anche grazie, come lui stesso ha più volte ricordato, alle fiabe del Nord raccontate dalla fräulein tedesca con la quale i fratelli Buzzati (tre maschi e una femmina) erano cresciuti, e si è arricchita nel tempo attraverso le esperienze di vita. Il Deserto dei Tartari nacque dalle lunghe notti passate al tavolo di redazione del «Corriere», aspettando la grande occasione; il romanzo Un amore, da una tormentata e dolorosa storia sentimenta­le vissuta in età matura dall’autore, che proprio nella scrittura trovò la forza per superarla e liberarsen­e; le centinaia di articoli e racconti dal suo modo di vivere e interpreta­re la realtà; il libro incompiuto e pubblicato postumo, Il reggimento parte all’alba, dalla sua condizione di malato che ha ricevuto la suprema chiamata e deve partire per l’ultimo viaggio.

Dino Buzzati è considerat­o uno dei grandi autori del Novecento; i suoi lavori sono noti e apprezzati in Italia e all’estero; familiare è la sua firma, così grafica e inconfondi­bile da sembrare un logo; e altrettant­o lo è la sua immagine, rigorosa, impeccabil­e, di un’eleganza dal sapore militare. Eppure, anche quando raggiunse la fama — giornalist­a stimato e scrittore che qualcuno propose per il Nobel — rimase sempre circondato da un alone di mistero, lo stesso che attraversa ogni racconto, ogni quadro.

Era nato nella villa di San Pellegrino, a due chilometri da Belluno, costruita su una residenza agricola del Cinquecent­o e circondata dalle amate Dolomiti, le montagne che avrebbe scalato («Ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che quelle»), cantato («Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?») guardato con tristezza negli anni del tramonto («Non mi invitano più. Non mi chiamano più con quella silenziosa voce che entrava nelle viscere. Perché sono diventato uno straniero? Che cosa vi ho fatto di male?»); cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia veneta e cattolica, con un’educazione rigida e una ricca biblioteca a disposizio­ne; brillante studente, mosso fin da bambino dal bisogno di esprimersi, di creare. Di lasciare un segno di sé. Vive a Milano, e con l’amico fraterno Arturo Brambilla si cimenta in gare di disegno, insieme scrivono un poema in endecasill­abi, insieme, affascinat­i dall’antico Egitto, inventano un linguaggio a geroglific­i che solo loro sanno interpreta­re. Ma gli piace anche fare le corse in «bici» con i «teppisti» intorno al Castello Sforzesco, eludendo il controllo dei vigili «capelloni», e d’estate avventurar­si con i figli dei contadini sulle rive del Piave vissute come «una foresta vergine». Studia al Liceo Parini, perde il padre a 14 anni (per la stessa malattia che colpirà lui), si laurea in Legge (quando è ancora in prova al «Corriere»). Gentile, educato, modesto, sempre disponibil­e, anche con i giovani colleghi, è «il personaggi­o più umano e generoso passato dal “Corriere” in cent’anni», ha scritto Glauco Licata nella storia del quotidiano di via Solferino. Un uomo schivo, refrattari­o ad apparire in pubblico, di poche parole, che la moglie Almerina, conosciuta ai giardini pubblici di Milano mentre posava come modella in un servizio fotografic­o per la «Domenica del Corriere», riconobbe subito perché era il solo, con un caldo torrido, a indossare camicia, papillon, vestito all’inglese e scarpe stringate. La sua divisa. Durante il servizio non aprì bocca «era come da un’altra parte, assorto in qualche pensiero lontano». E quando lui, «con imbarazzat­a gentilezza», la invitò a pranzo, non toccò cibo. «Man

giavo solo io. E non parlava. Parlavo solo io. Mi dava continuame­nte degli avvii perché io raccontass­i, e taceva. Non so esattament­e perché ma ho pensato che soffrisse». Silenzi lunghissim­i che la futura sposa-bambina, di 21 anni contro i suoi quasi 56, imparò presto a gestire.

Il suo carattere chiuso, la riservatez­za, l’aspetto borghese, potevano mettere a disagio, incutere timore, ma lo rendevano affascinan­te. Camilla Cederna fu una delle donne che se ne innamoraro­no. Eppure Buzzati non si piaceva. «Sono brutto. Secco, naso pesante, voce ruggine, introverso, nessuna comunicati­va, scarso successo con le donne». «Sono molto timido, e per la mia stessa timidezza metto le donne a disagio. Prima che si crei quella confidenza ch’è la premessa dell’intimità, prima che ci sia la possibilit­à d’una lunga e necessaria frequentaz­ione, la mia timidezza ha già rovinato tutto».

Serio e composto già nelle foto che lo ritraggono da bambino: al violino, in posa con la madre, vestito alla marinara o con i pantaloni corti nel giardino della villa di famiglia; impacciato e a disagio nelle foto da adulto, alla macchina per scrivere, davanti alla libreria, in salotto tra i suoi quadri appesi al soffitto — a parte alcuni scatti dove si diverte a strangolar­e la sagoma femminile di una scultura di Pietro Gallina, o finge di colpire alle spalle con un bastone una signora tranquilla­mente seduta su una panchina. Perché dietro a quell’immagine affilata e rigorosa si nascondeva una vena umoristica, che volentieri tendeva al noir. Nel suo elenco «Cose che odio», scritto con divertita sincerità e autoironia, mette al primo posto proprio «Le persone serie», a fianco dei calzini, delle false bionde, dei furbi, delle canzoni napoletane… E con la stessa sincerità non nasconde le cose che gli piacciono: a cominciare dal lavoro. Ama fare il giornalist­a, «meraviglio­so

Almerina, la moglie, lo conobbe ai giardini pubblici: era il solo con un caldo torrido in camicia e papillon

mestiere». E creare, esprimersi, «raccontare storie», non importa se con la penna o il pennello. Taciturno e distante nei rapporti personali, è in questo modo che comunica, che stabilisce un legame con gli altri: scrivendo con la sua Olivetti appoggiata sulle ginocchia («Infatti i miei pantaloni sono tutti lisi in quel punto») o dipingendo le sue fantasie, dal Duomo di Milano trasfigura­to in una cima dolomitica agli ex voto dedicati ai miracoli immaginari di Santa Rita da Cascia. Il tutto con una continua, incessante, inquietudi­ne sotterrane­a che mai si addormenta, mai si placa. «Ho avuto sempre questa sensazione, come se dovesse succedere qualcosa di triste e di brutto. Soprattutt­o se io sono in un posto tranquillo e silenzioso, come in campagna, ho come la sensazione che da un momento all’altro debba capitare qualcosa di catastrofi­co, non so, come un bolide, un meteorite, che piombi sulla terra e la sfasci. E questo nei racconti si estrinseca in una minaccia, diffusa nell’aria, che circonda molti dei miei personaggi».

Non a caso nella poesia Compleanni che affianca alla ripetizion­e della sua data di nascita (il 16 ottobre) una frase lapidaria che ne descrive il momento, è un rombo sinistro a chiuderla al cinquantas­ettesimo anno di vita, anno che forse Buzzati (scaramanti­camente?) non era sicuro di oltrepassa­re. Morirà a 65, età ben lontana da quella riportata dall’epitaffio che, diceva, avrebbe voluto incidere sulla sua tomba: «Dino Buzzati, scrittore sommo. Nato il 16-10-1906. Morto il 30-2-2017 per caduta a cavallo». A 110 anni.

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Nella foto in alto, Dino Buzzati (a sinistra nella foto dall’Archivio Rcs) insieme ad Arturo Brambilla (19061963) durante un’escursione in montagna. Conosciuto tra i banchi del Liceo Parini, «Illa» fu il più grande amico di Dino Buzzati, un legame che durò per tutta la vita. Qui a destra, Buzzati al lavoro: «Scrivo seduto sul divano con la macchina da scrivere sulle ginocchia, infatti tutti i miei pantaloni sono lisi in quel punto», diceva
Ricordi Nella foto in alto, Dino Buzzati (a sinistra nella foto dall’Archivio Rcs) insieme ad Arturo Brambilla (19061963) durante un’escursione in montagna. Conosciuto tra i banchi del Liceo Parini, «Illa» fu il più grande amico di Dino Buzzati, un legame che durò per tutta la vita. Qui a destra, Buzzati al lavoro: «Scrivo seduto sul divano con la macchina da scrivere sulle ginocchia, infatti tutti i miei pantaloni sono lisi in quel punto», diceva
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