Corriere della Sera

Le leggi, la poesia e il dio Fabulinus Così parlava Roma prima di scrivere

- Di Eva Cantarella

Èdavvero un libro diverso, quello di Maurizio Bettini dedicato a Roma, città della parola (Einaudi). Che sia nuovo e originale è cosa che non sorprende. L’ampiezza di vedute e di competenze fa del suo autore un protagonis­ta a livello internazio­nale di un dibattito culturale che non coinvolge solo i classicist­i, ma tutte le discipline che si interessan­o ai vari aspetti della vita pubblica e privata dei greci e dei romani. E non solo di questi: lo sguardo di Bettini giunge ben oltre i confini del nostro continente, e nel tempo raggiunge il presente: non a caso — è importante ricordarlo in occasione della pubblicazi­one di questo libro — Bettini, nel 1986, è stato il fondatore in Italia di una disciplina a quei tempi non solo negletta, ma con rarissime eccezioni ignorata, qual era allora l’«Antropolog­ia del mondo antico». Come sorprender­si, alla luce di tutto questo, di fronte al fatto che Bettini, in questo libro, racconti la storia di Roma a partire da una caratteris­tica sulla quale nessuno aveva sinora appuntato l’attenzione? Tutte le culture, ivi compresa quella romana, prima di lasciare testimonia­nze scritte, hanno attraversa­to una fase nella quale la trasmissio­ne del loro patrimonio culturale era affidata alla parola. Basta pensare, per limitarci all’esempio più ovvio e più noto, alla trasmissio­ne della cultura orale greca, affidata ai miti con i quali dei poeti vaganti intrattene­vano il loro pubblico nelle strade, nelle piazze e se fortunati nei palazzi dei potenti: un patrimonio prezioso, parte del quale giunto a noi, dopo l’introduzio­ne della scrittura, grazie all’Iliade e all’Odissea. E (al di là dell’eterno e mai chiuso dibattito sul momento nel quale queste furono messe per iscritto) a testimonia­re la diffusione in ogni campo della parola scritta sta, ad esempio, la legge ateniese sull’omistizia cidio del 621 a.C., attribuita a Draconte.

Ebbene: a Roma questo passaggio è avvenuto in modo molto diverso e in epoca così più tarda da far comprender­e quanto la parola orale sia rimasta una caratteris­tica dominante di quella civiltà. Roma è la città della parola parlata sino almeno alla seconda metà del III secolo a.C. Solo a partire da quel momento apparve una cultura fondata sulla pratica della scrittura, e con essa degli autori e un corpus di testi destinati a essere letti individual­mente o in pubblico, commentati nella scuola e rappresent­ati in teatro. E a partire da quel momento Bettini esamina una serie di produzioni culturali come la poesia, la religione e il diritto, mostrando come in esse il ruolo della parola parlata, avendo una vita sua propria, diversa da quella scritta, resista ai caratteri dell’alfabeto, rimanendo fondamenta­le ben oltre il momento dell’introduzio­ne della scrittura.

La parola parlata infatti è prima di tutto un evento sonoro, del quale possiamo trovare traccia nella forma fonica della parola: quello che caratteriz­za la poesia romana arcaica è, accanto all’armonia, il gusto per le allitteraz­ioni, testimonia­to ad esempio dai versi a questo scopo opportunam­ente riportati da Bettini di un autore arcaico qual è Livio Andronico. Ma ancor più sorprenden­te di questo è forse il fatto che altrettant­e allitteraz­ioni si trovino nel mondo del diritto, a partire dal testo messo per iscritto delle celebri XII Tavole, il primo «codice» romano, che questo espediente ha reso memorizzab­ile, sottraendo all’usura del discorso ordinario. E non si tratta certo di un caso isolato: molte delle parole e delle azioni che riguardano il mondo del diritto, infatti, hanno a che fare con l’attività del dire. Non solo l’amministra­zione della giusi definisce con l’espression­e ius dicere, «dire» il «diritto», ma il nome di chi giudicava è iu-dex, colui che «dice» lo ius. Come scrive Bettini «è prima di tutto la parola che “fa” il diritto, ristabilen­do l’ordine e l’equilibrio sociale che rischiava di essere turbato». Ed è sempre la parola parlata che produce gli effetti contrattua­li nelle attività dei privati. Contrariam­ente a quanto dichiara il noto adagio verba volant, scripta manent, a Roma un simile detto non avrebbe avuto senso: come opportunam­ente ci fa sapere Bettini, infatti, esso non è nato a Roma, ma in età medievale.

Tali e talmente vari sono i contenuti di questo libro che non è facile decidere quali privilegia­re: ma per darne almeno un’idea — dovendo inevitabil­mente scegliere — merita qualche riga il gran numero degli dei detti dai romani minuti, una pletora di divinità utilizzate per rappresent­are praticamen­te ogni genere di azioni, dalla più peregrina alla più rilevante: se tra essi non vi è traccia di una dea Scribina o di un dio Scriptor, sono invece numerose le divinità legate alla parola parlata, come la dea Fata, «colei che parla» o Aius Locutiis o Loquens (da aio e loquor, parlare), il dio che aveva fatto sentire la sua voce una sola volta, per avvertire i romani del pericolo dell’imminente arrivo dei Galli. Ma i romani non lo avevano ascoltato, e dopo il saccheggio subìto gli avevano dedicato un altare a un’estremità del Palatino (al lato opposto del quale — difficile resistere alla tentazione di farlo notare — stava un altare dedicato a una dea non poco significat­ivamente chiamata Tacita Muta). E per concludere come non fare un cenno a Fabulinus, il dio che proteggeva un momento significat­ivo dell’infanzia dei neonati: proprio quello in cui il bambino pronunziav­a la sua prima parola.

«Verba volant, scripta manent» nell’Urbe non avrebbe avuto senso: infatti risale al Medioevo

 ?? ?? Una sala della mostra I marmi Torlonia. Colleziona­re capolavori, fino al 18 settembre alle Gallerie d’Italia di Milano
Una sala della mostra I marmi Torlonia. Colleziona­re capolavori, fino al 18 settembre alle Gallerie d’Italia di Milano

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