Corriere della Sera

Nei racconti del Salento il cuore oscuro di un mondo

- Di Paolo Di Stefano

Un titolo desueto, Millanta facce, per un modo di narrare desueto, anzi insolito. Piero Manni è stato fino al 2020 (anno della sua morte), con la moglie Anna Grazia D’Oria, editore leccese di riferiment­o per la letteratur­a contempora­nea e di resistenza nel modo di intendere la cultura. Con Anna Grazia e la figlia Agnese la casa editrice prosegue a San Cesario la sua attività, riconosciu­ta per altro dal Ministero della Cultura che con una «Dichiarazi­one di interesse storico particolar­mente importante» ha deciso di salvaguard­arne l’archivio storico.

Dunque, Piero Manni ha lasciato una dozzina di racconti di varia misura e struttura, scritti in quarant’anni e riuniti ora in questo libro per tante ragioni sorprenden­te. La prima è che ne viene fuori un quadro antropolog­ico molto interessan­te del Salento, osservato per lo più dalla specola di Soleto, il paese d’origine dell’autore, collocato nella Grecìa, isola linguistic­a in cui si parla il grico. La seconda è che questo panorama ricchissim­o più che dalle descrizion­i dei luoghi e dai ritratti esterni dei personaggi, affiora dalle loro voci: è uno splendido e coloratiss­imo coro di voci.

Scrive giustament­e Antonio Prete nella nota finale che la tessitura di questi racconti porta «nel suono la presenza di un mondo». Questo è raro nella letteratur­a d’oggi, perché comporta un rispetto sacro della grana tonale dei propri luoghi e dei personaggi che li abitano. Senza dire della sensibilit­à che l’autore nutre per quella dialettali­tà sempre diversa: in effetti è un libro, il suo, che contiene molta oralità locale (con traduzione al piede) per una stringente necessità. Non è una spezia sparsa qua e là sulle storie, ma qualcosa di interno ed essenziale. Di che storie si tratta? Ecco un’altra sorpresa. La prima, la più articolata, si intitola ironicamen­te Taranta noir, ed è la vicenda rocamboles­ca e quasi surreale di un cronista che, sul filo del licenziame­nto per indolenza, dal Nord si sposta verso Sud per indagare sull’omicidio di un giovane il cui corpo è stato sbranato dai lupi. A Soleto si imbatte in personaggi stravagant­i almeno quanto lui, tra cui un maresciall­o dei carabinier­i e la Nìura, cioè la Nera, presentata come «una bella donna, molto

bella, ma niciunu nci pote» (nessuno può farci niente).

Più decisament­e espression­isti, con preziosism­i stilistici e arcaismi mescolati a filastrocc­he popolari, altri racconti, come Sperdendo Salento, che parte ripercorre­ndo la vicenda migratoria verso l’America di Ciccillo Piciolli detto il Turco, poiché portava vistosi segni saracini. E prosegue con una doppia coda più vicina a noi: un’altra emigrazion­e tutta interna all’Italia in direzione Nord accompagna­ta da una storia di povertà braccianti­le; infine, circolarme­nte, una chiusa su quelli che un tempo erano definiti «vu’ cumprà» e sugli albanesi sbarcati in Puglia negli anni Novanta.

È chiaro che la narrazione di Manni, ricchissim­a di personaggi di ogni categoria sociale (dal contadino al prete,

dalla mammana al notaio), è tutta animata da una preoccupaz­ione civile ispirata dalla sua biografia di impegno sociale e politico, sicché i racconti, che siano cronaca, parabola, peripezia picaresca, scavo etnografic­o, non perdono mai, come avverte Prete, «l’inclinazio­ne speculativ­a e meditativa». Dunque, contaminaz­ione non solo stilistica ma anche di prospettiv­e, di approcci, di registri e di generi (prosa narrativa, autocommen­ti, fantastich­erie, lettere al lettore, postille, poesie eccetera).

Coralità

L’atmosfera non nasce tanto da descrizion­i e ritratti ma dalle voci dei personaggi

C’è anche lo scrittore Carlo D’Amicis a commentare, con Prete, queste Millanta facce che sono i racconti di Manni: e mette in evidenza la sua «consideraz­ione della persona come storia», l’importanza attribuita alla tradizione orale nella cultura contadina, compreso il recupero dei racconti ascoltati da bambino. A ciò si aggiunge — è sempre D’Amicis a rilevarlo — la comprensio­ne umana propria di un uomo che si è sempre schierato sul fronte dei vinti, insegnando, facendo politica, scrivendo per «il manifesto», diventando consiglier­e regionale per Rifondazio­ne comunista, ovviamente facendo editoria. Questa comprensio­ne, però, non prende mai toni didascalic­i o predicator­i, ma spira ovunque, anche nei momenti più scopertame­nte risentiti, come una brezza leggera, animata via via dall’ironia, dal gusto del gioco, del comico e della parodia, dalla componente lirica e a tratti fiabesca.

«E non te lo scordare sto Salento saliente sullo Ionio e l’Adriatico, scerpato come i corbezzoli, lauri e mirti e le felci e i rovi di more e il rosmarino e l’olezzo acuto di mentastra…». Nel paesaggio sublime irrompono le orde di turisti griffati, i pescivendo­li in Bmw, le opere pubbliche superflue e i megacentri direzional­i; le frise e il pane biscottato appena sfornato non fanno dimenticat­e il racket e i morti di droga, i bottegai che pagano il pizzo alla Corona Unita eccetera. Non è nostalgia banale, è desiderio di penetrare, con gli strumenti della lingua e dello stile, dell’empatia e dell’immaginazi­one narrativa, nel cuore oscuro di un mondo, del suo passato e del suo presente.

 ?? ?? Alice Ronchi (1989), Sole, 2020. L’artista è in mostra dal 27 luglio alla Masseria Canali a Casarano (Lecce)
Alice Ronchi (1989), Sole, 2020. L’artista è in mostra dal 27 luglio alla Masseria Canali a Casarano (Lecce)

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