Corriere della Sera

«Siamo grati per le scuse Ma ora chi ha sbagliato sia fuori dalle indagini»

L’avvocato Trizzino, genero del giudice, e le parole di Melillo

- Dal nostro inviato Giovanni Bianconi

PALERMO Nella città che celebra uno dei suoi martiri antimafia, le magliette indossate da bambini e ragazzi che al tempo della strage non erano nati lanciano un messaggio di speranza: «La memoria di ieri per i cittadini di oggi. Borsellino 2.0». In via D’Amelio, il luogo dell’eccidio, a decine sfoggiano questo slogan, insieme ad altri (del movimento «Agende rosse») che suonano più agguerriti: «Trent’anni senza verità e giustizia», «No cerimonie di Stato per stragi di Stato».

Mai come quest’anno omaggio (alle vittime) fa rima con depistaggi­o, a pochi giorni dalla sentenza che ha certificat­o il contributo di almeno due poliziotti dell’epoca al falso pentimento del falso mafioso Vincenzo Scarantino, accusa oggi dichiarata prescritta; ma non sono certo loro gli ideatori, né i mandanti delle prove manipolate. Lo spiega l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenit­a del magistrato assassinat­o, e di fatto rappresent­ante legale della famiglia. Sia nei processi in cui è stato legale di parte civile, sia nel giorno in cui i figli di Borsellino hanno deciso di disertare le cerimonie ufficiali; solo Manfredi, funzionari­o di polizia, è andato alla caserma dell’ufficio scorte dove il capo del Dipartimen­to Lamberto Giannini ha deposto una corona di fiori sulla lapide che ricorda i cinque agenti caduti nella strage: Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.

«Non sono quei due imputati i primi responsabi­li del depistaggi­o», dice l’avvocato Trizzino che fa una rapida apparizion­e in via D’Amelio riepilogan­do le manovre cominciate ben prima del finto pentimento di Scarantino: «Subito dopo l’esplosione viene fatta sparire l’agenda rossa, poi si ipotizza che la Fiat 126 trasformat­a in auto-bomba sia stata riempita di tritolo nello stesso garage in cui era stata rubata la targa applicata alla macchina. C’è un’osmosi di veline tra Squadra mobile e Sisde sull’identifica­zione degli autori del furto dell’auto e del luogo in cui sarebbe stata custodita, e si arriva al futuro questore Arnaldo La Barbera che, riconsegna­ndo la borsa di Paolo, dice a mia moglie Lucia che l’agenda rossa non c’è perché non c’era».

Sono tutti anelli di un’unica catena, sostiene il marito di Lucia Borsellino, che per sedici anni ha legato l’attentato di via D’Amelio a una falsa verità costruita dagli investigat­ori e avallata dai pubblici ministeri e poi dai giudici di primo e secondo grado di Caltanisse­tta, fino a quelli della Cassazione.

Per questi errori tramutatis­i in depistaggi­o, dopo trent’anni, il procurator­e nazionale antimafia Giovanni Melillo ha chiesto pubblicame­nte scusa ai familiari di Borsellino e agli innocenti condannati all’ergastolo, scarcerati dopo 17 anni di detenzione. «Un atto di sensibilit­à umana e istituzion­ale di cui siamo grati — commenta Trizzino — e che altri avrebbero dovuto compiere prima. Penso però che la magistratu­ra debba fare un passo ulteriore, trovando dei meccanismi per cui chi è stato coinvolto, anche in buona fede, in quelle indagini inquinate e inquinanti non siano più investiti in futuro delle indagini sulla strage. Quegli inquirenti hanno avuto la loro occasione, hanno fallito, ora devono lasciare il campo a chi può guardare e leggere con occhi diversi quelle carte».

Le parole dell’avvocato sembrano indicare un nome e un cognome: il pubblico ministero Nino Di Matteo, che a Caltanisse­tta partecipò alle indagini su via D’Amelio al tempo del falso pentito Scarantino e che, dopo l’esperienza al Csm che terminerà in autunno, da sostituto procurator­e della Direzione nazionale antimafia potrebbe tornare ad occuparsen­e con il «gruppo stragi» di cui faceva parte. «Di Matteo è l’ultima persona di cui penserei male a questo mondo — chiarisce l’avvocato —, ma non possiamo ignorare conflitti d’interessi anche solo ipotetici. E del resto lui nel 2009, da pm di Palermo, mostrava perplessit­à sull’attendibil­ità del pentito Spatuzza che sconfessav­a Scarantino, e che invece era considerat­o già credibile dai suoi colleghi di Caltanisse­tta. Ci vogliono menti libere per andare avanti nelle indagini. Del resto se un chirurgo sbaglia un’operazione a un ginocchio, trent’anni dopo non mi faccio operare da lui all’altro ginocchio, mi pare una consideraz­ione di senso comune».

Nel 2018, prima di farne parte, lo stesso Di Matteo (unico tra gli inquirenti di allora) è stato ascoltato dal Csm, in seduta pubblica su sua richiesta, dove ha rivendicat­o l’estraneità ai depistaggi e un ruolo minino nella gestione di Scarantino, puntando il dito su chi «l’ha imboccato mescolando bugie e verità» e lamentando le «campagne di disinforma­zione» orchestrat­e per «strumental­izzare la sacrosanta ansia di verità» della famiglia Borsellino. Parole che non hanno evitato il cortocircu­ito tra due posizioni oggi tanto distanti quanto stridenti, in una celebrazio­ne inevitabil­mente segnata da assenze e polemiche. Nonostante le magliette sfoggiate da bambini e ragazzi.

Chi è stato coinvolto, anche in buona fede, nell’inchiesta inquinata e inquinante, ha fallito e ora deve lasciare il campo a menti libere

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(Fotogramma) Ieri e oggi Un bimbo mostra un cartello in memoria di Paolo Borsellino, ieri, in via D’Amelio trentesimo anniversar­io della strage del 19 luglio 1992 (Fotogramma) Nella foto tonda in basso la scena del crimine: le macerie della palazzina davanti alla quale scoppiò la bomba devastata dalla potenza dell’esplosione e le carcasse delle auto Nell’attentato morirono il giudice palermitan­o antimafia insieme ai cinque agenti della sua scorta
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