L’UNIVERSITÀ E I LIMITI DEI «RANKING»
Ogni anno, con grande eco nei media, leggiamo i risultati dei ranking internazionali delle università: proprio come accade con le merci e le aziende quotate in Borsa, gli atenei salgono e scendono nelle posizioni. Tra le varie classifiche, quelle più famose sono tre: ARWU-Shanghai, THEWUR e QS-WUR. I criteri indagano soprattutto la produzione scientifica, il prestigio e (in qualche maniera) anche l’insegnamento. I limiti di questi modelli sono ben noti: mancanza di attenzione per le scienze umane e sociali e finestre temporali troppo corte per i settori più lenti non afferenti alle scienze dure. Lo stesso «h-index», per esempio, non distingue tra citazioni e autocitazioni, saggi a una firma e a più firme, tra citazioni positive e negative, e non misura neppure l’autorevolezza della citazione. Producendo comici paradossi: molte «stroncature» aumentano comunque l’impatto, mentre la comparazione tra «h-index» di aree di ricerca diverse produce risultati aberranti. Così temi alla moda, su cui lavorano in molti, garantiscono più citazioni, mentre percorsi originali vengono ignorati. I parametri quantitativi investono anche l’insegnamento: il rapporto tra numero di studenti e personale non tiene conto della qualità dei docenti. I ranking non si limitano a valutare, ma orientano gli atenei. E, purtroppo, alimentano pure un proficuo mercato di citazioni e riviste. Oggi le università lavorano soprattutto per le classifiche. Ma se Harvard è sempre in testa c’è una ragione: pur avendo meno di 20.000 studenti spende quasi il 50% del budget di tutte le università italiane che contano un milione di iscritti. È qui la radice del divario. Avremo migliori atenei inseguendo il marketing? O stiamo distruggendo quanto di meglio l’Europa aveva creato: università statali con il doppio compito di formare cittadiniprofessionisti colti e grandi scienziati che fanno la fortuna degli atenei americani.