Corriere della Sera

Ricognizio­ne nel dolore

Una famiglia vive il calvario della disabilità nel romanzo di Massimo Cecchini

- di Giancristi­ano Desiderio

Il Bambino (Neri Pozza) è il titolo del romanzo di Massimo Cecchini e lui, il Bambino che si chiama Angelo, è il disabile che cresce e diventa ragazzo, adulto, fino a giungere alle soglie dell’anzianità ma restare sempre ciò che fu: il Bambino. Con una prosa asciutta — che è la vera protagonis­ta del romanzo —, nuda, anti-retorica Cecchini, che è giornalist­a a «La Gazzetta dello Sport», ha scritto un racconto che è la cronaca di un dramma familiare che può accadere ad ognuno di noi, ma che ognuno di noi allontana da sé come si allontana il calice amaro nella clemente speranza di non doverlo bere mai. L’incipit è una coltellata alla schiena: «Aveva gli occhi ciechi, la bocca sempre aperta, la saliva libera, il grido gutturale, la forza animale, la risata misteriosa, il capriccio infantile, la parola e il dolore incomprens­ibili, la purezza dei poveri di spirito». Una scrittura tutta cose che nulla cela e tutto rivela, soprattutt­o la vita nella sua crudezza e insensatez­za alla quale, però, Pietro e Anna, i genitori del bambino, dicono sì nonostante il dolore sia gratuito e irredimibi­le.

Che cos’è la vita di Pietro e Anna Bonaventur­a con il loro Angelo dalla metà degli anni Sessanta in qua? È «l’allenament­o all’amore assurdo». Il romanzo, che racconta una storia vera, ripercorre tutte le tappe della vita di Angelo: da quando lui ancora non c’era e Pietro e Anna — lui romano, lei calabrese — si conobbero a Roma, si presero e sposarono con lei in attesa di Angelo. Lui nacque e nessuno diagnostic­ò il male sul quale, del resto, ancora per circa un anno si poteva intervenir­e con un piccolo taglio alla base della testa facendo fuoriuscir­e il liquido che gli opprimeva il cervello danneggian­dolo, nel tempo, in modo perenne. Il Bambino con «alcuni handicap mentali e fisici» diventa il centro della casa e, anzi, la Casa: Pietro e Anna, pur provandoci, non avranno altri figli, mentre le difficoltà della gestione di Angelo, molto più grandi dei genitori, richiedera­nno l’assistenza e l’aiuto pratico e affettivo, una vera e propria missione, di altre persone: le due sorelle filippine Nora e Roselyn. Perché anche solo l’ipotesi di portare Angelo in un centro specialist­ico per disabilità neurologic­he è scartata all’origine: «Non ci sarebbero state né cura né salvezza per Angelo fuori dalla chiesa familiare». Nulla è tralasciat­o o velato nella cronaca del romanzo: né la nutrizione, né la defecazion­e, né il sesso, nulla, perché come per Nora e Roselyn anche il lettore scorgerà nel Bambino «la luce dell’animalità senza colpa».

Forse, Il Bambino è un romanzo estremo, radicale, coraggioso. Senz’altro estrema, radicale, coraggiosa è la storia che narra. Perché le vite che ci sono intorno ad Angelino sono spazzate via, annullate, fermate per — forse — rinascere in vite a loro volta estreme. Il Bambino non parla, non intende, si colpisce la testa, si acceca, trova un po’ di pace solo nei viaggi notturni in auto di centinaia di chilometri. Nel romanzo si susseguono entrate e uscite di scena dei personaggi:

Silvia, Lorenzo, Benedetto, le famiglie di Pietro e Anna, la società borghese di Roma sullo sfondo. Ma la storia ha una sua origine e una sua fine solo e soltanto il lui: Angelo, il Bambino. Lui è tutto e nulla, amore e odio, tenerezza e crudeltà, senso e disperazio­ne. Che cos’è più l’amore nella vita di Pietro? «Il giovane appassiona­to solo di tennis e automobili — scrive la voce sorda che narra —, immune dai sensi di colpa per i mesi di studio sprecati solo per cattiva volontà, adesso era diventato il motore instancabi­le di un progetto fittizio». Sì, fittizio ma pure reale, esistente, vero, massacrant­e come può essere un eterno presente senza alcuno sviluppo. Infatti, Pietro «aveva deciso di rinunciare al proprio tempo e al proprio corpo per dedicarli ai bisogni di un figlio incapace di comprender­e gli sforzi compiuti e neppure in grado di dirgli grazie, se non attraverso il suo linguaggio oscuro». Le vite di Pietro e Anna si consumano e finiscono prima che finisca la vita del loro Bambino.

Una storia che toglie il fiato e che non è priva di colpi di scena che, però, sono lasciati alla scoperta del lettore. Qui non resta altro da fare che soffermars­i sulle ultime parole di Massimo Cecchini, lì dove dice che il suo primo pensiero va a coloro che si confrontan­o ogni giorno con il mondo della disabilità: «Niente di ciò che io posso aver provato a descrivere riuscirà mai a dare il senso dell’impegno e della lezione di vita, che avendo l’umiltà di accettarla, se ne può trarre». La vitalità per sua stessa natura dovrebbe insegnarci ad essere umili.

Il Bambino non parla, non intende, si acceca, trova un po’ di pace solo nei viaggi notturni in auto

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