La prospettiva euroasiatica su cui scommette il Cremlino
In tema di geopolitica, il Valdaj Discussion Club è l’equivalente russo del Forum di Davos. Sin dal 2003 vi partecipano decine di esperti russi insieme ad analisti, accademici, qualche politico e giornalisti da tutto il mondo. Il clou della manifestazione è un lungo discorso di Vladimir Putin, che poi risponde a domande non concordate. Rito autocelebrativo, ma anche hub di posizioni molto diverse e non necessariamente in linea col Cremlino, il Valdaj è un’occasione imprescindibile di conoscenza per chiunque si occupi di Russia.
Per diciassette anni, Orietta Moscatelli, analista di «Limes» e caporedattrice esteri di askanews, ha partecipato alle riunioni annuali del Valdaj, una delle poche o pochi italiani a farlo. Ricordo ciò perché, nell’onda anomala di improvvisatori e orecchianti sollevata dalla crisi ucraina, Moscatelli è un raro esempio di competenza e profondità. E il suo libro, Putin e Putinismo in Guerra, appena uscito per i tipi di Salerno Editrice, è probabilmente la cosa migliore fin qui scritta per aiutarci a capire un conflitto dai contorni sfuggenti e dalle conseguenze imprevedibili. Soprattutto, l’autrice cerca di decifrare l’eterno enigma della Russia, nella sua più recente incarnazione imperiale, il sistema che ha in Putin il proprio centro di gravità, scandagliando la psicologia del potere, gli automatismi autoritari, l’ideologia.
La tesi di Moscatelli, rafforzata da fonti russe, sulla genesi dell’invasione decisa da Putin il 24 febbraio, dopo aver più volte negato ogni intenzione di farlo e cercato un’improbabile soluzione negoziale con la celebre lista di richieonata ste impossibili recapitata agli americani, è che lo zar sentiva il tempo sfuggirgli, convinto di dover agire prima che fosse troppo tardi. Prima cioè che il livello di addestramento e armamento fornito dagli Stati Uniti agli ucraini alterasse i rapporti strategici a sfavore di Mosca.
Ma è dal 2014 che l’Ucraina è un’ossessione per Putin, argomento che, come rivela l’autrice «può provocare in lui forti reazioni emotive e farlo pesantemente infuriare». Quell’anno, la rivolta di Euromaidan e la perdita del controllo russo su Kiev aprirono una ferita a cui l’annessione della Crimea fece soltanto da provvisorio cerotto. È da allora che lo zar pensa alla reconquista, convinto, come disse a George W. Bush in una sessione a porte chiuse durante il vertice di Bucarest del 2008, che «l’Ucraina non è neppure un Paese».
E qui sta uno degli snodi fondamentali della visione di Putin, che vuole riunificare il mondo russo, rincorre l’impero slavo-zarista e si vede vendicatore dei torti del bolscevismo. Quelli di Vladimir Lenin in particolare, reo di aver ceduto il Donbass alla neRepubblica sovietica dell’Ucraina, concedendole anche un diritto di secessione dall’Urss contro cui Iosif Stalin (il «piccolo padre» che ora viene rivalutato) aveva cercato inutilmente di opporsi. La bomba sarebbe scoppiata settant’anni più tardi, grazie alla «fellonia» di Mikhail Gorbaciov e agli intrighi degli americani.
Moscatelli ricostruisce con puntualità e ricchezza di aneddoti la preistoria della guerra, cattura i tratti essenziali e l’evoluzione del putinismo, meccanismo per la gestione e il mantenimento del potere, ma anche sistema ideologico non privo di contraddizioni, dove convivono il nazionalismo russo e la dimensione multietnica, il cristianesimo ortodosso come pilastro fondante e la multi-confessionalità, sullo sfondo di una narrazione che dipinge la Russia eterna assediata da un Occidente degenerato e decadente, proprio come nei quadri di Ilya Glazunov.
Come finirà la roulette russa in Ucraina? «Nell’insostenibilità di una sconfitta per tutte le parti in causa, una soluzione negoziata è la possibile via d’uscita, dovesse prendere anni». Già, perché l’Ucraina non può arrendersi, pena «un fallimento del fronte occidentale». Ma la Russia non può perdere, poiché ciò «implicherebbe il crollo del regime e il rischio dell’implosione interna». Putin non vuole ripetere l’esperienza dell’Urss e ha già stretto le viti. Ma anche così, conclude l’autrice, «la fase bellica prospetta un ulteriore arrocco da parte del regime: la Russia di domani potrebbe non avere Putin al comando, ma potrebbe essere altrettanto putiniana, se non di più». E comunque vada, in futuro per Mosca ci saranno più Asia, più Cina e molto meno Occidente.