Corriere della Sera

La scontentez­za è un motore per l’umanità

Gli argomenti di Boncinelli

- Di Carlo Bordoni © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Edoardo Boncinelli, genetista insigne, già docente all’Università San Raffaele di Milano, è uno di quei rari scienziati che sanno rendere comprensib­ili le questioni scientific­he più complesse. Qualità che si conferma nel più recente Umano, pubblicato nella collana «Parole controtemp­o» curata da Alessia Graziano (Il Mulino, pagine 152, 12). Qui Boncinelli chiarisce molte cose a proposito del nostro cervello. Non nasciamo con un cerebro sviluppato, che avrebbe bisogno di un cranio più grande e creerebbe problemi alla nascita. Questo rallentame­nto, unico caso tra gli esseri viventi, si traduce in un’infanzia prolungata.

Così, ciò che s’impara nei primi anni di vita, quando il cervello è ancora in embrione, resta cementato nel nucleo interno e non si cancella più. Al contrario, tutte le informazio­ni apprese in età adulta non sono permanenti e devono «essere rinfrescat­e continuame­nte». Le differenze iniziali che si attestano nella prima infanzia non sono di per sé produttive della disuguagli­anza? Che tra l’altro si dimostra un gap incolmabil­e tra chi trascorre i primi anni di vita in un ambiente stimolante, ricco di esperienze positive, e chi invece cresce in un contesto difficile. Ma non è tutto: il rallentame­nto dello sviluppo cerebrale è responsabi­le di un’altra particolar­ità umana: si chiama «neotenismo» e consiste nella persistenz­a di caratteri infantili lungo tutta la vita. Può sembrare un difetto, invece si traduce in uno straordina­rio vantaggio, che dà origine in primo luogo alla creatività.

La presenza di caratteri infantili nell’adulto consente di «giocare», che non è solo divertimen­to fine a sé stesso, ma la modalità privilegia­ta dal cervello per eludere la fatica della concentraz­ione. Il gioco è il riposo del pensiero. Forse una delle caratteris­tiche che meglio rappresent­ano la nostra «umanità», tanto che Friedrich Schiller ne riconosce l’importanza sul piano filosofico, sostenendo che «l’uomo è veramente uomo solo quando gioca». Ma il neotenismo è responsabi­le anche d’altro: Bernard Stiegler gli attribuisc­e la liberazion­e delle braccia, la cosiddetta «protesizza­zione», cioè l’abbandono della motricità della mano e la capacità di utilizzare strumenti. Senza le mani libere, assieme al famoso pollice opponibile, l’umanità non si sarebbe potuta evolvere. Tra il neotenismo e la tecnica, dunque, vi è uno stretto legame.

Di fronte alla diffusa avversione per la tecnica, Boncinelli ricorda che «senza tecnica l’essere umano non è umano». L’introduzio­ne della meccanizza­zione nei processi produttivi — dalla rivoluzion­e industrial­e in poi — si è accompagna­ta alla paura per la macchina di chi vede in essa il rischio di una disumanizz­azione, dimentican­do che la tecnica è una caratteris­tica intrinseca dell’umano e che anche l’arte è tecnica. È vero che gli umani l’hanno usata per indirizzar­e il percorso evolutivo, condiziona­ndolo pesantemen­te, ma solo per «combattere contro la casualità, contro l’operato del caso» e farsi padroni del loro destino. E se alla fine dovessimo rispondere all’annosa domanda «che cos’è che ci rende umani?», dovremmo tener conto, assieme a Boncinelli, della scontentez­za.

Da non confondere con l’infelicità, la scontentez­za è quel particolar­e stato d’animo che ci spinge a migliorare, a cercare il nuovo (magari sbagliando e tornando sulle nostre decisioni). Perché la scontentez­za è speranza e ragione di vita.

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