Corriere della Sera

PROCURATOR­I DALL’ANTIMAFIA AL PARLAMENTO

- di Luigi Ferrarella © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Tre su tre, da quasi 10 anni tutti i procurator­i a capo della Direzione nazionale antimafia e antiterror­ismo, appena vanno in pensione, passano in politica: a marzo 2013 Pietro Grasso parlamenta­re pd e poi presidente del Senato, nel 2018 Franco Roberti assessore in Campania e poi europarlam­entare pd, e adesso Federico Cafiero de Raho (procurator­e Dna sino a quattro mesi fa) nel M5Stelle di Giuseppe Conte al pari del neo pensionato procurator­e generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Tutti e tre reclutati da partiti che — nella penuria di dirigenti alla Pio La Torre, cioè capaci di autonome elaborazio­ni politiche sull’antimafia — intendono segnalare il proprio impegno per la legalità rincorrend­o ex toghe ( finanche con curiosi incroci ad esempio tra Cafiero de Raho, che da procurator­e di Napoli «coordinò la cattura del boss di camorra Michele Zagaria», e nel centrodest­ra invece forse Catello Maresca, già candidato a sindaco di Napoli sull’onda dell’essere stato «il pm che catturò Zagaria»). Certo un maggiore stacco temporale tra fine servizio di procurator­e Dna e entrata in politica sarebbe più elegante nel far decantare patrimoni informativ­i acquisiti, in quel ruolo, dalla banca dati di tutte le indagini italiane, dai colloqui investigat­ivi in carcere, e dal monitoragg­io delle intercetta­zioni finalizzat­o a evitare indagini «doppie» tra Procure. Ma altrettant­o certamente questa remora può apparire snob a confronto della infornata di condannati definitivi che nel disinteres­se generale sta per affollare le liste della destra. Persino la ricandidat­ura di Silvio Berlusconi ha tenuto banco poco e solo sotto il profilo politico del suo ritorno in Senato, nell’oblio invece dei motivi di una condanna per frode fiscale confermata da tre gradi di giudizio e poi nemmeno intaccata dalle tentate revisioni a Brescia e Strasburgo. «Aspettiamo le sentenze definitive» si giura quando inizia una inchiesta: poi però, quando le sentenze arrivano, nessuno più vuole (né da cittadino pretende di) tenerne conto. E in fondo questa indisponib­ilità ad accettare l’esito definitivo di un processo fa il paio con l’apparentem­ente opposta collezione elettorale di toghe, entrambe mostrando che le urne del 25 settembre già propongono un risultato: la sostanzial­e irrilevanz­a del tema giustizia, e il suo declassame­nto a puro paesaggio, fondaco di dispute collateral­i. lferrarell­a@corriere.it

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