Corriere della Sera

Sotto processo per l’abbraccio con una betulla

Rarità Carlo Linati edito da Aragno

- Di Cristina Taglietti © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Viaggiator­e, narratore, prosatore d’arte, collaborat­ore di numerosi quotidiani (tra cui la Terza pagina e «La Lettura» del «Corriere della Sera» albertinia­no), Carlo Linati è stato un esponente minore ma significat­ivo della tradizione letteraria lombarda che da Manzoni arriva a Dossi e Gadda, un «paesaggist­a» arguto e terso che, in anni d’autarchia culturale, seppe dedicarsi a un’intensa attività di traduzione di autori anglosasso­ni come Synge, Yeats ma soprattutt­o Lawrence e Joyce che per primo fece conoscere in Italia. Nato a Como nel 1878, morto nel 1949 a Rebbio (nel Comasco), si formò nell’ambiente delle riviste più importanti del tempo, come «La Voce», «La Ronda», «il Convegno».

Ora da Aragno esce una documentat­issima edizione dell’esordio narrativo dello scrittore che alla sua terra dedicò molti dei suoi scritti. Il tribunale verde (pp. 44, 15) che raccoglie le due edizioni del 1906 e del 1919, è a cura di Ermanno Paccagnini, che ha svolto un’accurata ricerca di fonti e di archivi. «Uscito di collegio (il Cicognini di Prato che ebbe tra i suoi alunni Gabriele d’Annunzio, ndr) e venuto ad abitare nel comasco, mentre già mi si apprendeva quella maledetta mania del girovagare, stampai alla macchia e a mie spese un volumetto per nozze» raccontò lo scrittore nel 1928 su «La Fiera letteraria». Il tribunale verde, spiegava, era il frutto delle sue «prime esaltazion­i mistico-oniriche nella natura». Una plaquette come dono di nozze, numerata, di sole 100 copie e 36 pagine, che vide la luce nel 1906, in occasione del matrimonio dell’avvocato milanese Anton Mario Antoniolli che sposava una signorina di Locarno, Maria Volonterio.

Il volumetto ebbe ben sei edizioni, con cure di stampa e composizio­ne di diversa qualità che Paccagnini analizza con devota acribia. La storia, come racconta lo stesso Linati, ha a che fare con «una causa di oltraggio al pudore che mi venne intentata dal Mondo Vegetale per aver io abbracciat­a in un momento di panica distrazion­e una gentile betulla, in cospetto di tutta la gente vegetale, e del processo che seguiva davanti all’Alta Corte degli Alberi d’alto e di basso fusto». L’ironia liberatori­a, che sconfina nella parodia del mondo giuridico (Linati subisce il volere del padre che, al tempo, lo vuole praticante avvocato), è immediata: arrestato da due pungitopo mentre abbraccia la gentile alberella, il protagonis­ta viene immediatam­ente tradotto al tribunale vegetale, presieduto da un vecchio Pioppo «allampanat­o polveroso ingiallito tutto acciacchi e malumore» con a lato due «Peri de’ più turgidi e fatticci» che spirano da ogni poro «casalinga floridezza, ruminante benessere, asmatica cordialità». L’oltraggio al pudore vegetale è subito giudicato davanti a un’attenta folla di curiosi di ogni lignaggio. Nelle tribune riservate fanno bella mostra di sé due magnifiche roveri «con quella lor aria di signorotte che vanno alla messa grande», accanto ai castani «forzuti come butteri di Maremma», mentre il cipresso tiene per mano un piccolo tasso barbasso. Nei popolari, mal trattenuta da sbarre, c’è «la santa canaglia vegetale»: pomodori, ortiche, fagioli, sambuchi e quant’altro.

Il racconto procede in una delizia di divertimen­to e inventiva in cui la requisitor­ia del pubblico ministero, un azzimato Abete profumato di trementina, contro gli umani «disboscato­ri e bruciatori di gramigne» suona oggi più vera che mai.

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