Marlene Laruelle e il crollo di Putin
«La Russia è inquieta», scrive Marlene Laruelle, docente di affari internazionali alla George Washington University. In effetti, insieme ad altri segnali che indicano una diminuzione del consenso, gli sviluppi negativi della guerra in Ucraina hanno portato la gente in piazza con una determinazione sorprendente. Come andrà a finire? «Non ci sono assicurazioni che gli oltranzisti nell’élite al potere accettino la repressione interna come un’alternativa al successo militare», osserva la studiosa francese in un articolo sul New York Times, aggiungendo che, «con un esercito stremato», Putin «deve trovare un modo per ottenere un risultato militare che possa essere inquadrato almeno come una vittoria parziale». Non lo aiuta poi il fatto che Cina e India, «abbiano iniziato a esprimere le loro preoccupazioni». Questo non vuol dire che per il presidente russo si avvicini l’epilogo. «Anche tra tutte queste difficoltà — prosegue — sarebbe un errore prevedere un crollo del regime. Ma Putin, come ogni leader, dipende dalla legittimazione che garantisce il suo potere. Nelle prossime settimane e mesi potrebbe scoprire che il terreno sotto i suoi piedi ha iniziato a muoversi».
Pur nella loro sostanziale prudenza, le analisi della direttrice dell’Istituto per gli studi europei, russi ed euroasiatici dell’università americana — 49 anni, studi all’Inalco e a Sciences-Po di Parigi — appaiono puntuali e aprono uno spiraglio di speranza sulla possibilità di cambiamenti a breve o medio termine nell’ex superpotenza che si propone, come ha detto Joe Biden, di «cancellare il diritto dell’Ucraina di esistere come popolo». Meno convincenti sembrano invece le sue posizioni sulle cause del conflitto, la cui responsabilità ricade interamente sui disegni egemonici di Putin. Autrice di un saggio pubblicato l’anno scorso, Is Russia Fascist?, Marlene Laruelle sostiene che l’ideologia al potere nella Russia odierna è l’«illiberalismo». Un modello molto attuale, che trova altri interpreti in Paesi ancora più vicini a noi, come l’Ungheria di Orbán — e i cui punti fermi risultano pericolosamente contagiosi: il rifiuto delle
istituzioni multilaterali, la priorità allo Stato-nazione, l’attacco ai diritti delle
minoranze.