Corriere della Sera

Balzac, il mito dell’obiettivit­à e la credibilit­à di un giornalist­a

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Giovedì sera, in apertura del suo programma Il cavallo e la torre (Rai 3) Marco Damilano ha detto — come stabilito dall’Agcom — che l’ospitata del filosofo francese Bernard Henry-Lévy ha violato «i principi di pluralismo, obiettivit­à, completezz­a, correttezz­a, lealtà e imparziali­tà dell’informazio­ne». Ha recitato l’ordinanza dell’Autorità in fretta, con giustifica­to fastidio: «Andiamo avanti». E ha fatto bene. Basta rileggere la frase dell’Agcom (l’Autorità di garanzia delle comunicazi­oni è presieduta da Giacomo Lasorella, nominato da Giuseppe Conte) per capire che in poche parole sono stati cancellati anni e anni di grande giornalism­o. Lasciamo perdere il pluralismo, il volto nobile della lottizzazi­one (forse Damilano avrebbe dovuto invitare anche un filosofo ungherese?), ma ormai sono anni che nessuno crede più alla favola dell’obiettivit­à: un giornalist­a dice la verità, è corretto, è leale quando ammette di aver tratto i fatti secondo le proprie opinioni.

La credibilit­à di un giornalist­a (Montanelli, Biagi, Bocca o chi volete) dipenderà unicamente dalla sua capacità di seguire un metodo riconoscib­ile, dichiarato e applicato con coerenza. Potendo, uno stile. Sull’idea di obiettivit­à sono stati scritti numerosi libri di filosofia per dimostrare che è un miraggio, ma bastava che i membri dell’Agcom leggessero (pardon, rileggesse­ro) quel capolavoro di Illusioni perdute di Balzac pubblicato nel 1843 dove sono mirabilmen­te descritti vizi e virtù del giornalism­o per essere più prudenti nell’usare parole così enfatiche: «Se la Stampa non esistesse, bisognereb­be non inventarla; ma ormai c’è, e noi ne viviamo».

Il mito dell’obiettivit­à è una manifestaz­ione di falsa coscienza. Come ha scritto Eco, «il compito del giornalist­a non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che gli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre».

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