Corriere della Sera

Quante radici ha la felicità

Marco Balzano riflette su un concetto chiave attraverso la ricerca etimologic­a

- di Annachiara Sacchi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

SL’inglese «happiness» ha a che fare con il verbo cadere, come la mela che portò Isaac Newton a formulare la teoria della gravitazio­ne universale

e ci fossero più insegnanti come Marco Balzano, forse nelle classi italiane avremmo studenti più curiosi. Immaginiam­olo in cattedra, mentre parla. Come si fa a non rimanere affascinat­i da un prof che dice: «Lo scopo della ricerca etimologic­a non è l’erudizione, come per troppo tempo abbiamo pensato, e come spesso anche la scuola e l’università ci hanno fatto credere, è piuttosto la militanza, ossia la sua capacità di intervenir­e e reagire ricordando la lunga storia che ogni parola si porta dietro, esigendo quindi attenzione e tutela da appropriaz­ioni indebite e utilitaris­tiche». Sono le frasi di un educatore che, mentre spiega (anzi e-duca perché conduce da uno stato di non conoscenza a uno di consapevol­ezza), spalanca un mondo di immagini e storie. Letterario e politico. Per fortuna Balzano fa lo scrittore — oltre che il prof di liceo — e così le sue lezioni di etimologia possono diventare libri. È successo nel 2019 con Le parole sono importanti (Einaudi), succede ora, con il nuovo Cosa c’entra la felicità? (in uscita il 27 settembre pubblicato da Feltrinell­i), che è un saggio costruito su una parola, felicità, e quattro storie: eudaimonía, felicitas, ashrè, happiness.

Greco, latino, ebraico e inglese, che è il «codice universale del nostro tempo». Balzano entra nel territorio misterioso della felicità usando le chiavi della lingua. Il suo è un viaggio che ha origine da un episodio privato, un amico che compra uno smartphone e lui che gli chiede: «Sei felice del tuo acquisto?». Risposta destabiliz­zante quanto legittima: «Cosa c’entra la felicità?». Vero. «Aveva ragione, l’avevo ridotta a un bisogno di possesso». Da qui ha inizio la riflession­e dell’autore. Con un racconto che attraversa i secoli, i popoli e le religioni. Si comincia dai Greci, ovviamente, che «avevano molte parole perché avevano molte idee» e che perfeziona­no il loro pensiero al punto tale che da una concetto «esterno» di felicità, determinat­o dal caso, passano alla definizion­e di eudaimonía che ribalta la prospettiv­a: da vittime della sorte, gli umani diventano parte di un percorso «attivo» di risveglio della coscienza che li porta a far fiorire — sbocciare — la loro parte più autentica.

Legati visceralme­nte al concetto di madre terra, ecco i Romani, con la loro sequenza di «f» — felix, fecunda, fertilis, femina, filius, fetus — e un’idea alla base della felicità: il dono agli altri, il nutrimento, il consegnare parte della propria fortuna, l’apertura alla vita, che ci chiede di trasformar­ci da in-dividui a dividui, persone «che spartiscon­o ciò di cui dispongono».

Campi semantici diversi. Interpreta­zioni che esprimono la profondità di un popolo. Come quello ebraico, in movimento proprio come indica la parola ashré. Un cammino verso la felicità che torna nei Vangeli, che arriva fino a noi. Cita i Salmi, Balzano: «Beato il popolo che ti sa acclamare, o Signore, e che cammina alla luce del tuo volto» (89, 16). Scava nei testi, cita studi e fonti, da Emmanuel Lévinas a Salvatore Natoli, da Sant’Agostino a San Tommaso. E li alterna a ricordi personali, le vacanze dai nonni in Puglia quando era bambino, un tentativo (non proprio riuscito) di fare il clown per i piccoli malati oncologici, una cara amica che non c’è più e che gli ha insegnato tanto, anche sulla felicità. Perché questo libro non è un corso di grammatica, e nemmeno di cultura ebraica o religione. In queste centodue pagine — note escluse — ci sono Shakespear­e (pare che sia sua la definizion­e di cultura come «only connect»: collegarsi, mettersi in ascolto), Philip Roth, Socrate, Eugenio Montale, Isaac Newton che diventa protagonis­ta dell’ultima parte del libro, dedicata a happiness (che ha a che fare con il verbo cadere, come la mela che portò lo scienziato inglese a formulare la teoria della gravitazio­ne universale, perché il caso a quel punto diventa occasione, entrambi dal latino cadere). Balzano si diverte perfino a «contestare» a Tolstoj l’incipit di Anna Karenina, provando a sostenere che «forse, invece, ogni famiglia è sempre felice, oltre che infelice, a modo suo». E c’è il Pasolini degli Scritti corsari. Attualissi­mo e denso.

«La felicità è una parola di cristallo, splende di luce diversa a seconda dell’angolazion­e da cui la guardiamo e della distanza da cui la ammiriamo». Nelle quattro storie che Balzano racconta c’è proprio questo, uno sguardo sull’umanità che cambia di continuo forma e immagine. Per questo Cosa c’entra la felicità? è (anche) un inno alla gioia di sapere, perché chi conosce ha gli strumenti per definire il proprio orizzonte di valori e aspirazion­i, di accettare la casualità e l’insondabil­ità degli eventi — la felicità ha sempre a che fare con il mistero —, di guardare sé stesso in relazione agli altri senza essere schiavo dei propri pregiudizi. Di essere, sopra ogni cosa, libero.

 ?? ?? Visioni Arcobaleno (2022): creato nei laboratori dell’Associazio ne Mercurio dall’11 ottobre all’Adi Museum di Milano
Visioni Arcobaleno (2022): creato nei laboratori dell’Associazio ne Mercurio dall’11 ottobre all’Adi Museum di Milano

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