E grazie a Craxi cessarono le cannonate
Giornalisti di razza e politici appassionati nello stesso tempo: anche questo, pensa un po’, sfornavano un tempo i quotidiani di partito. Di questa particolarissima specie del Novecento italiano Ugo Intini, nato giornalisticamente e politicamente all’«Avanti!», è un rappresentante esemplare. Quando il Psi era sulla cresta dell’onda, veniva rappresentato come un crociato del craxismo («Ugo Palmiro», lo definiva il giovane Michele Serra ai tempi delle aspre polemiche a sinistra su Togliatti e i suoi eredi); dopo la caduta, come una specie di ultimo giapponese. Ma Intini non è né l’una né l’altra cosa. È, semplicemente, quello che un tempo veniva definito un militante.
Lo dimostra questo suo ultimo librone Testimoni di un secolo (pagine 652, 25), da poco uscito per Baldini+Castoldi, centinaia di godibilissime pagine spese per raccontare il secolo breve attraverso le testimonianze (ovviamente indirette) di quarantotto dei suoi protagonisti. Da Pietro Nenni a Bettino Craxi, passando per Sandro Pertini e Giancarlo Pajetta, Carlo Azeglio Ciampi e Indro Montanelli, Giulio Andreotti e i sindaci socialisti di Milano, ma pure, citiamo alla rinfusa, per Willy Brandt e i successori di Mao, Yasser Arafat e Nicolau Ceausescu, i capi talebani e Kim Il-sung. E tantissimi altri che Intini ha frequentato assiduamente, o con i quali ha avuto incontri ravvicinati, un po’ da giornalista e un po’ da dirigente di partito, da rappresentante del Psi presso l’Internazionale socialista e, infine, da sottosegretario e da viceministro degli Esteri.
Un libro così non si può sintetizzare. Diremo semplicemente che è nello stesso tempo una raccolta di ritratti (una volta si sarebbe detto: di medaglioni), un’ autobiografia, un saggio storico. Ma pure, e nemmeno troppo indirettamente, qualcosa di più: un’apologia post mortem, verrebbe da dire, di una politica e, se è per questo, pure di un giornalismo che non ci sono più, formulata, però, cercando di tenere a bada le insidie della nostalgia per un tempo che è doveroso sottrarre alla damnatio memoriae e che si può persino rimpiangere, ma di certo non tornerà.
Con ogni probabilità a leggere Testimoni di un secolo saranno soprattutto signori e signore attempati, che con quelle storie hanno avuto qualcosa da spartire, magari su posizioni opposte a quelle dell’autore: si può essere certi che proveranno un certo raccapriccio a paragonare la statura dei leader di ieri (compresi i più detestabili) e quella dei leader di oggi. Ma questo libro avrà pure qualche lettore almeno relativamente giovane. Chissà cosa comprenderà e cosa penserà di un mondo in cui, per dirla con Nenni, la politica che contava di più, almeno per i migliori, era la politica estera, e capi di Stato e di governo, nonché uomini di partito di prima e di seconda grandezza, spesso avevano fatto in tempo a conoscersi da ragazzi, negli organismi internazionali giovanili e studenteschi. Erano una casta? Forse sì. E, in certi casi, pure dei vecchi goliardi. Ma, per fare un piccolo esempio, tra i tanti ricordi di Intini ce n’è uno, minore quanto si vuole, che meriterebbe da solo una riflessione non banale. Correva l’anno 1983, Craxi era da poco presidente del Consiglio, in Libano i drusi bombardavano il nostro contingente di pace. Bettino telefonò direttamente al loro capo Walid Jumblatt, con cui aveva condiviso in passato tante riunioni dell’Internazionale giovanile socialista: «Ma sei scemo? Io divento capo del governo, e tu spari sugli italiani?». Le cannonate finirono lì.