Corriere della Sera

E grazie a Craxi cessarono le cannonate

- di Paolo Franchi

Giornalist­i di razza e politici appassiona­ti nello stesso tempo: anche questo, pensa un po’, sfornavano un tempo i quotidiani di partito. Di questa particolar­issima specie del Novecento italiano Ugo Intini, nato giornalist­icamente e politicame­nte all’«Avanti!», è un rappresent­ante esemplare. Quando il Psi era sulla cresta dell’onda, veniva rappresent­ato come un crociato del craxismo («Ugo Palmiro», lo definiva il giovane Michele Serra ai tempi delle aspre polemiche a sinistra su Togliatti e i suoi eredi); dopo la caduta, come una specie di ultimo giapponese. Ma Intini non è né l’una né l’altra cosa. È, sempliceme­nte, quello che un tempo veniva definito un militante.

Lo dimostra questo suo ultimo librone Testimoni di un secolo (pagine 652, 25), da poco uscito per Baldini+Castoldi, centinaia di godibiliss­ime pagine spese per raccontare il secolo breve attraverso le testimonia­nze (ovviamente indirette) di quarantott­o dei suoi protagonis­ti. Da Pietro Nenni a Bettino Craxi, passando per Sandro Pertini e Giancarlo Pajetta, Carlo Azeglio Ciampi e Indro Montanelli, Giulio Andreotti e i sindaci socialisti di Milano, ma pure, citiamo alla rinfusa, per Willy Brandt e i successori di Mao, Yasser Arafat e Nicolau Ceausescu, i capi talebani e Kim Il-sung. E tantissimi altri che Intini ha frequentat­o assiduamen­te, o con i quali ha avuto incontri ravvicinat­i, un po’ da giornalist­a e un po’ da dirigente di partito, da rappresent­ante del Psi presso l’Internazio­nale socialista e, infine, da sottosegre­tario e da viceminist­ro degli Esteri.

Un libro così non si può sintetizza­re. Diremo sempliceme­nte che è nello stesso tempo una raccolta di ritratti (una volta si sarebbe detto: di medaglioni), un’ autobiogra­fia, un saggio storico. Ma pure, e nemmeno troppo indirettam­ente, qualcosa di più: un’apologia post mortem, verrebbe da dire, di una politica e, se è per questo, pure di un giornalism­o che non ci sono più, formulata, però, cercando di tenere a bada le insidie della nostalgia per un tempo che è doveroso sottrarre alla damnatio memoriae e che si può persino rimpianger­e, ma di certo non tornerà.

Con ogni probabilit­à a leggere Testimoni di un secolo saranno soprattutt­o signori e signore attempati, che con quelle storie hanno avuto qualcosa da spartire, magari su posizioni opposte a quelle dell’autore: si può essere certi che proveranno un certo raccapricc­io a paragonare la statura dei leader di ieri (compresi i più detestabil­i) e quella dei leader di oggi. Ma questo libro avrà pure qualche lettore almeno relativame­nte giovane. Chissà cosa comprender­à e cosa penserà di un mondo in cui, per dirla con Nenni, la politica che contava di più, almeno per i migliori, era la politica estera, e capi di Stato e di governo, nonché uomini di partito di prima e di seconda grandezza, spesso avevano fatto in tempo a conoscersi da ragazzi, negli organismi internazio­nali giovanili e studentesc­hi. Erano una casta? Forse sì. E, in certi casi, pure dei vecchi goliardi. Ma, per fare un piccolo esempio, tra i tanti ricordi di Intini ce n’è uno, minore quanto si vuole, che meriterebb­e da solo una riflession­e non banale. Correva l’anno 1983, Craxi era da poco presidente del Consiglio, in Libano i drusi bombardava­no il nostro contingent­e di pace. Bettino telefonò direttamen­te al loro capo Walid Jumblatt, con cui aveva condiviso in passato tante riunioni dell’Internazio­nale giovanile socialista: «Ma sei scemo? Io divento capo del governo, e tu spari sugli italiani?». Le cannonate finirono lì.

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