Corriere della Sera

I RETROSCENA DI FIUME

L’IMPRESA DI D’ANNUNZIO VENNE ISPIRATA DA AMBIENTI ECONOMICI E FINANZIARI

- Di Paolo Mieli

Un saggio di Eugenio Di Rienzo, edito da Rubbettino, indaga sugli appoggi occulti e palesi che il poeta ottenne in quelle drammatich­e circostanz­e La denuncia di Nitti e il ruolo svolto dalla massoneria guidata da Torrigiani

Dieci mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale, ai primi di settembre del 1919, partì la spedizione per Fiume. A guidare la conquista della città contesa tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, c’era Gabriele D’Annunzio. Il poeta proclamò la Reggenza del Carnaro e istituì un regime libertario, festante, vagamente ispirato all’anarcosind­acalismo. A Fiume, ricordò lo scrittore Giovanni Comisso che prese parte all’impresa, «si faceva senza alcun ritegno tutto ciò che si voleva». Qualcuno cinquant’anni dopo paragonò l’aria respirata in quei giorni a Fiume a quella del Sessantott­o. Altri, a ridosso degli eventi, vollero che fosse stata un’anticipazi­one della «marcia su Roma» e una sperimenta­zione in vitro di certi aspetti che avrebbe avuto il regime mussolinia­no. Ipotesi e tesi confutate dagli studi assai seri sulle origini del fascismo di Nino Valeri, Renzo De Felice e Roberto Vivarelli, che misero ben in evidenza le diversità tra dannunzian­esimo e mussolinis­mo. Ai quali si sono aggiunti, in tempi più recenti, i due preziosi libri di Marco Mondini — Fiume 1919. Una guerra civile italiana (Salerno) — e di Maurizio Serra: L’Imaginific­o. Vita di Gabriele D’Annunzio (Neri Pozza).

Il governo d’Italia presieduto da Francesco Saverio Nitti in un primo tempo fu relativame­nte tollerante nei confronti di D’Annunzio. Finché, alla fine del 1920, Giovanni Giolitti (successore di Nitti) mise termine all’occupazion­e nei giorni di un Natale definito all’epoca — non senza una qualche enfasi — «di sangue»: i morti, tra soldati del Regio esercito, legionari dannunzian­i e civili, furono poco più di una cinquantin­a. L’avventura durò 476 giorni. Arrotondat­i a 500 da Giordano Bruno Guerri nel documentat­issimo Disobbedis­co. Cinquecent­o giorni di rivoluzion­e. Fiume 19191920 (Mondadori).

Resta il fatto che, dopo Fiume, D’Annunzio gradualmen­te sparì dalla scena politica e si affermò, invece, Benito Mussolini. Nel duello ingaggiato dopo il 1921 con Mussolini, D’Annunzio fu sconfitto perché «nella competizio­ne tra un dilettante e un profession­ista della politica l’esito della sfida era del tutto scontato», scrive Eugenio Di Rienzo in D’Annunzio diplomatic­o e l’impresa di Fiume, edito da Rubbettino. Ma Di Rienzo non insiste più di tanto sulla «congenita inadeguate­zza politica» del poeta. Dal momento che la tesi dell’«inadeguate­zza» non terrebbe in sufficient­e consideraz­ione l’«indubbia maestria di mediare tra la sinistra e la destra fiumana» del Vate che riuscì ad avere in mano «sempre stretto» il bastone del comando. E fu capace, «con maggiore o minore successo», di far fronte a «maestri di intrighi della stazza di Badoglio, Nitti, Giolitti, Sforza». Anche se Di Rienzo, citando Thomas Mann, fa qualche concession­e al concetto di «impolitici­tà dannunzian­a». Impolitici­tà ampiamente documentat­a da manifestaz­ioni di «nausea per la politica» (sulle quali si soffermò Benedetto Croce) e di «disgusto per i maneggi del politicant­ismo giolittian­o». Ciò che non fece di D’Annunzio un protofasci­sta. Ma «costituì il terreno di coltura per l’affermarsi di simpatie per il fascismo anche presso i più illustri esponenti del fronte liberale».

Detto questo, va aggiunto — secondo Di Rienzo — che l’impresa di D’Annunzio fu probabilme­nte «ispirata e resa materialme­nte possibile dal concorso dei Poteri forti (economici e finanziari), dei vari gruppi di pressione, a volte difficilme­nte etichettab­ili politicame­nte, della Fratellanz­a massonica, della grande e media stampa schierata o che si autodefini­va indipenden­te». Forze, queste, «ben radicate nella struttura dello “Stato invisibile” che, intreccian­do la loro azione con quella dello “Stato visibile” (Forze armate, agenzie di intelligen­ce, apparato burocratic­o, spezzoni del governo) in quel momento dettavano o quantomeno influenzav­ano fortemente l’agenda della politica italiana».

Se si accetta questa ipotesi, è da ridimensio­nare anche la definizion­e di «Antistato fiumano». Perché l’organismo statale italiano a cui quell’«Antistato» mirava appunto a contrappor­si, «si era già disgregato di fronte alla crisi dell’immediato dopoguerra in vari tronconi». Tronconi che avrebbero agito molto spesso autonomame­nte. Quali? Regio Esercito, Regia Marina (con i loro servizi di informazio­ne e le loro attività coperte), Ministero dell’Interno con i suoi bureaux preposti ai cosiddetti «Affari riservati», «spesso deviati rispetto ai loro fini istituzion­ali». Senza escludere, inoltre, che «i germi di questa frammentaz­ione della sovranità statale si annidarono persino nel cuore profondo dell’esecutivo». Dove? Nella presidenza del Consiglio, risponde Di Rienzo, nella Consulta in cui «Carlo Sforza e l’onnipotent­e segretario generale del ministero degli Affari Esteri, Salvatore Contarini erano rimasti fedeli all’eredità della politica estera assertiva di Sonnino».

A queste forze si dovrebbe aggiungere la Casa regnante: «l’enigmatico» Vittorio Emanuele III ed Emanuele Filiberto, Duca d’Aosta, «perennemen­te in fregola di smanie golpiste». Tutti loro «consentiro­no all’impresa fiumana — finanziata, controllat­a e indirizzat­a dallo Stato Maggiore Generale, dai Palazzi romani, dalle banche e dai complessi industrial­i dell’Italia settentrio­nale — di nascere, sopravvive­re consolidar­si, sviluppars­i». Salvo poi abbandonar­la al suo destino quando quell’impresa verrà giudicata «non più funzionale ai loro obiettivi».

Questa la tesi di Di Rienzo. D’Annunzio non sarebbe stato «né l’ideatore né l’incontrast­ato primo attore dell’avventura di Fiume». In realtà — secondo l’autore — egli ricoprì, «fino ad un certo punto almeno», il ruolo di «semplice strumento manovrato da altri» come «alcuni politici e analisti di quella tormentata stagione avevano perfettame­nte compreso».

Lo stesso Nitti, nelle sue memorie — Rivelazion­i. Dramatis personae (Edizioni Scientific­he Italiane) —, affermò che si era voluto fare di D’Annunzio «il creatore del movimento fiumano che certo contribuì a creare» mentre egli invece «fu, in definitiva, soprattutt­o l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui». Gaetano Salvemini, il quale avanzò un’ipotesi che Di Rienzo definisce «inquietant­e» e cioè che gli stessi Nitti e Giolitti avessero

agito dietro le quinte per disgregare il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In tutto ciò, prosegue Di Rienzo, «è veramente difficile non scorgere una continuità stretta con la “diplomazia di movimento” di Cavour prima sperimenta­ta nei Balcani, attuata poi nella guerra non dichiarata contro Francesco II». Una diplomazia corsara di cui si avvalse in seguito Urbano Rattazzi nell’agosto 1862 e nell’ottobre-novembre 1867 «per giungere alla conquista di Roma senza arrivare a uno scontro frontale con la Francia del Secondo Impero». Servendosi nuovamente, come nel maggio del 1860, in Sicilia, «dei servigi del disobbedie­nte-obbediente Giuseppe Garibaldi».

Dove si troverebbe­ro le tracce delle trame a cui si riferisce Di Rienzo? Nitti, tra le personalit­à più importanti dell’epoca, fu colui che, nelle citate memorie, per primo chiamò in causa la massoneria. Massoneria da cui lui stesso sostenne di essersi sentito minacciato. E che, a suo dire, «aveva rappresent­anti e agenti in tutti i centri importanti di popolazion­e, spesso anche in alcuni centri minori». Nessun partito se non la massoneria, secondo Nitti, «poteva nello stesso giorno e alla stessa ora inscenare riunioni e dimostrazi­oni e far credere a movimenti della coscienza nazionale che in realtà non esistevano». Ancor più puntuale in questo atto d’accusa, l’uomo che all’epoca era a capo del governo, scriveva: «Fra gli aderenti dell’insano tentativo di D’Annunzio furono, infatti, molti massoni». E «gli organi superiori della massoneria non avversaron­o D’Annunzio ma anzi esaltarono la sua impresa e la favorirono ben prima del suo inizio».

Nitti era convinto che la massoneria era stata responsabi­le nel 1915 «dell’entrata in guerra dell’Italia in forma incostituz­ionale e con procedimen­ti e metodi messicani». E che al Grand’Oriente fosse riconducib­ile «il male che fece il colpo di mano di Fiume». Responsabi­le, la massoneria, «solo in parte» per ciò che era accaduto tra l’aprile e il maggio del 1915. In «gran parte» invece per quel che si produsse tra il 1919 e il 1920. Il tutto comprovato dalle ammissioni del gran maestro di Palazzo Giustinian­i, Domizio Torrigiani, il quale, in tempi successivi, «tenne non solo a riconoscer­e ma anche a rivendicar­e il merito della contribuzi­one massonica alla scellerata avventura dannunzian­a».

Torrigiani dal giugno del 1919 era stato, come

successore di Ernesto Nathan, alla guida del Grand’Oriente d’Italia. Simpatizzò per l’avventura del Carnaro e si recò a Fiume per due missioni (concordate con Nitti). Poi, quando nel 1920 l’impresa dannunzian­a prese un carattere nettamente antigovern­ativo, se ne distaccò.

Negli anni seguenti Torrigiani ebbe problemi con Mussolini soprattutt­o dopo la crisi successiva al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti. In quell’occasione Torrigiani tenne contatti con Giovanni Amendola e svolse un ruolo di rilievo nel rendere pubbliche carte che danneggiav­ano la reputazion­e di Mussolini. Nel 1925 il regime fascista sciolse le logge massoniche e il gran maestro espatriò in Francia. Tornato a Roma nel 1927, fu arrestato dalla polizia e mandato al confino, prima a Lipari, poi a Ponza. Si ammalò, venne curato sommariame­nte e gli fu restituita la libertà soltanto nell’aprile del 1932. Giusto in tempo per poter morire cinquantas­eienne, a fine agosto del 1932, nella villa di famiglia a San Baronto, frazione di Lamporecch­io, in provincia di Pistoia.

Dell’iniziale appoggio di Torrigiani alla causa di D’Annunzio — dopo il primo viaggio del gran maestro a Fiume — sono rimaste innumerevo­li tracce. Tra le quali, Eugenio Di Rienzo mette in risalto due articoli di giornale pubblicati lo stesso giorno: 6 novembre 1919.

Il primo comparve sul «Messaggero». Il giornale dei fratelli Perrone dava grande risalto a un comunicato del «Governo dell’ordine massonico» di esplicito sostegno ai legionari fiumani. La massoneria, sotto la guida di Torrigiani, assicurava il comunicato, «continuerà a seguire, come dall’inizio, con amorosa, ininterrot­ta cura e materiale sostegno, l’eroica azione concepita dall’eroe di Buccari e di Vienna per il trionfo dei popoli martiri e per il coronament­o della Vittoria italiana». Il tutto era accompagna­to da un commento con il quale il giornale romano esprimeva il proprio entusiasti­co sostegno alla presa di posizione della massoneria.

L’altro articolo fu pubblicato quello stesso giorno dal quotidiano socialista l’«Avanti!». In esso si denunciava­no gli intrecci tra quella che era stata la «massoneria interventi­sta» e «i generali massoni che sono di fatto i comandanti dell’esercito fiumano». Tutte prove eloquenti che il Grand’Oriente aveva «sobillato» la «faccenda di Fiume». «Quando ci sarà concesso di parlare», proseguiva il foglio del Psi con un esplicito accenno alla censura, «vedremo perché insieme alla massoneria anche stavolta agiscono gli emissari della Grandi Banche, i Toeplitz gli emissari dei Perrone, e, con loro, i più noti arruffoni dell’affarismo capitalist­ico internazio­nale». Un articolo che Di Rienzo definisce «in larga parte profetico». O forse soltanto ben informato. Dieci giorni dopo, il 16 novembre 1919, Badoglio comunicava a Nitti che D’Annunzio aveva ricevuto «una missione dei principali industrial­i e finanzieri italiani» tra i quali venivano, direttamen­te o indirettam­ente, individuat­i molti dei nomi pubblicati sull’«Avanti!».

Paralleli

Una parte dello Stato appoggiò dietro le quinte l’azione di D’Annunzio, come aveva fatto Cavour con la spedizione dei Mille nel 1860

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Il poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) a cavallo nella città di Fiume con i suoi legionari: la città venne occupata nel settembre del 1919 dagli uomini del poeta, l’esercito italiano li costrinse ad andarsene nel dicembre del 1920
Alla guida Il poeta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) a cavallo nella città di Fiume con i suoi legionari: la città venne occupata nel settembre del 1919 dagli uomini del poeta, l’esercito italiano li costrinse ad andarsene nel dicembre del 1920

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