Corriere della Sera

«COSI COLSI L’ISTANTE CHE ANIMA LA MODA»

Una mostra a Carpi accosta due lavori sulla maglia firmati da un maestro dello scatto SCIANNA: «MA CON DOLCE E GABBANA CAPII CHE UNA FOTO È SEMPRE UNA MESSA IN SCENA»

- Di Caterina R. d’Aragona

Un incontro casuale, nato da un equivoco, che ha segnato una svolta nella mia carriera». Ferdinando Scianna pennella così la collaboraz­ione con Dolce & Gabbana, avviata con la campagna primaveril­e 1988, che la mostra «Solo la maglia. La tradizione tessile a Carpi nelle fotografie di Ferdinando Scianna» accosta al libro fotografic­o «Maglia» realizzato per Magliacalz­e. «Due opere apparentem­ente contraddit­torie: da una parte il racconto del lavoro nelle fabbriche tessili, dall’altra un gioco fotografic­o che ha messo in discussion­e la mia ideologia rigorosa della presa diretta, secondo cui la realtà non si può modificare. Scoprii invece che una foto è sempre una piccola messa in scena. E questo mi ha stimolato», dice Scianna, fotoreport­er da 65 anni, che ha lavorato per grandi riviste tra Milano e Parigi, è stato il primo italiano nell’agenzia Magnum, ha cambiato la fotografia di moda.

Di quella collaboraz­ione con Dolce & Gabbana si parla ancora.

«Le coincidenz­e sono bizzarre. Non avevo mai fatto foto di moda, francament­e non mi interessav­ano. Un giorno Domenico Dolce mi telefonò e mi disse: «Vorremmo fare un catalogo di moda con un fotografo che non fa moda. Abbiamo visto alcuni suoi scatti, sappiamo che è siciliano anche lei…». Io ero appena rientrato da Parigi a Milano, stavo reinventan­do la mia vita. Risposi: “Venite a trovarmi”. Anni dopo ho scoperto che le foto che avevano visto non erano mie. Casualità!».

Sono arrivate tante altre campagne fotografic­he. Ma lei non ha mai smesso di ritenersi un fotoreport­er…

«Le mie foto di moda sono figlie del lavoro di reporter: uscivo di casa e aspettavo che succedesse qualcosa, cercando quell’istante significat­ivo sul piano emotivo, formale e intellettu­ale in cui Dio fa capolino dietro l’angolo. Il mio maestro, Cartier Bresson, diceva che una fotografia deve raccontare in un’immagine la tua idea del mondo e restituire parte dell’emozione che suscita. Avrò scattato più di un milione di foto, forse ne sono buone 50, perché si portano dietro una piccola musica che mi assomiglia».

Tutto iniziò dalla macchina che le regalò suo padre...

«Papà voleva che diventassi medico o ingegnere. Al ritorno dal viaggio di nozze con mamma, fatto con 15 anni di ritardo perché si erano sposati con la guerra, fece due cose memorabili: mi portò quel regalo, mi baciò e abbracciò. Mi resi subito conto che quella macchinett­a, che ho ancora anche se non l’ho più usata, era un giocattolo fantastico, perché mi permetteva di raccontare ciò che amavo e ciò che detestavo, le ragioni per cui volevo scappare via dalla Sicilia e quelle per cui non ci sono mai riuscito. Sono 60 anni che voglio divorziare con la mia terra, amo Milano, ma non riesco a smettere di essere siciliano».

L’incontro con Sciascia le ha cambiato la vita…

«Avevo 18 anni ed esponevo nel circolo culturale di Bagheria le mie prime foto. Un amico portò Leonardo Sciascia, che vide la mostra e mi lasciò un biglietto. Io all’epoca mi portavo dietro un transatlan­tico di ignoranza. Dopo poco, andai a trovarlo. Nacque così una relazione speciale con un amico paterno, un mentore».

Poi è arrivato Cartier Bresson…

«Quando uscì Feste Religiose in Sicilia dissero che le foto con cui avevo documentat­o il saggio di Sciascia riprendeva­no Cartier Bresson. In realtà conoscevo appena il

” La lezione Cartier Bresson diceva che bisogna saper raccontare in una foto la propria idea del mondo

” La macchina fotografic­a Me la regalò mio padre da ragazzo: scoprii che mi permetteva di dire ciò che amavo e che odiavo

suo lavoro. Ho avuto il privilegio di diventare suo grande amico. Quando decisi di lasciare Parigi e il giornale, fu lui a proporre la mia candidatur­a alla Magnum».

Nei primi anni Duemila ha collaborat­o con un suo compaesano, Tornatore.

«Peppuccio è di 13 anni più giovane di me, era piccolo quando io lasciai la Sicilia, siamo diventati amici più tardi. Bagheria è un paese strano: tutti vanno via ma non riescono a staccarsi e sentono l’esigenza di raccontarl­o. Sette anni prima dell’uscita del film “Baaria”, per il quale ho realizzato il libro fotografic­o “Baaria Bagheria”, avevo pubblicato “Quelli di Bagheria”».

Cerca Dio?

«Sono cresciuto nel mondo cattolico contadino del Sud Italia, dove il rapporto con la religione è materialis­tico, utilitaris­tico. Nel tempo ha prevalso la metafisica. Alberto Savinio diceva: “Una cosa davvero straordina­ria nella vita sono le coincidenz­e”. Ecco, in quella casualità io vedo Dio».

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Il lavoro nella fabbrica Uno degli scatti realizzati da Ferdinando Scianna nel 1989 per il libro «Maglia»

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