Corriere della Sera

I talenti riportati in Ungheria hanno avviato il rinascimen­to

- DAL NOSTRO INVIATO

BUDAPEST Cinque anni nel calcio non sono pochi, ma a giugno 2017 l’Ungheria perdeva contro Andorra (1-0) nelle qualificaz­ioni al Mondiale russo. Due settimane dopo il belga Leekens fu cacciato e al suo posto arrivò Marco Rossi, che oggi con un pareggio può centrare le finali di questa Nations, con la certezza di ospitare l’evento a giugno. Si fa presto a dire che il calderone turbolento della Puskas Arena (teatro anche di episodi di razzismo e lancio di oggetti, come contro l’Inghilterr­a) è uno dei segreti di questa rivoluzion­e, specie dopo l’Europeo dello scorso anno: qui si è fermata la Francia (1-1); la Germania invece si è salvata a pochi minuti dall’eliminazio­ne (2-2) in casa sua, lasciando agli ungheresi l’orgoglio e la certezza di essere all’inizio di un percorso sorprenden­te. In realtà la storica vittoria di Wolverhamp­ton (40) con gli inglesi e quella di Lipsia tre giorni fa (1-0) con i tedeschi hanno confermato che l’Ungheria (solo tre gol subiti, due dei quali contro l’Italia a Cesena) è una squadra da maneggiare con cura ovunque, perché non è una semplice selezione, ma viene gestita dall’ex compagno di Mancini nella Sampdoria, come un club: con un nucleo di 15 giocatori fissi, gli altri chiamati a rotazione e un contatto frequente attraverso le video chat, per sentirsi sempre in missione per conto di un Paese che ha fame di calcio, approfitta­ndo anche del calo di motivazion­e delle grandi avversarie. È innegabile l’interventi­smo del presidente Viktor Orbán e del suo governo per finanziare, con quasi un miliardo di euro in undici anni, il progetto di rinascita calcistica dopo i fasti della Aranycsapa­t, la squadra d’oro, beffata al mondiale svizzero del 1954 dai tedeschi. Ma con un torneo nazionale modesto (nemmeno 3000 spettatori di media a partita) e con pochi giocatori di spessore internazio­nale, non era scontato arrivare fin qui. I meriti del pragmatism­o di Rossi — che propone una difesa a tre che a volte diventa anche a sei, un recupero palla veloce e un gioco verticale — sono enormi e riconosciu­ti a Budapest. Ma decisivo è il contributo che arriva (e arriverà ancora) da oltre confine,

In 5 anni la squadra è cambiata, grazie al c.t. Rossi, all’impegno economico del governo e ai giocatori scovati in giro per l’Europa

visto l’investimen­to del governo nelle squadre di città con forti comunità ungheresi in Slovacchia, Serbia, Croazia o Romania). La naturalizz­azione di Willi Orban (nato in Germania), quella del parigino Nego e dell’inglese Styles e ora quella di Kerkez, diciottenn­e esterno sinistro, ex Primavera del Milan nato in Serbia, hanno arricchito il tasso tecnico. Senza dimenticar­e che la stella del gruppo, il numero 10 Dominik Szoboszlai, è emigrato a 14 anni a Salisburgo, entrando nell’orbita Red Bull fino all’esplosione nel Lipsia, dove gioca anche il portiere Gulacsi, noto per i suoi alti e bassi, ma soprattutt­o per la sua posizione anti Orbán (il presidente) sui diritti degli omosessual­i. Difficile che il prossimo capitano sia lui, il ballottagg­io è proprio con il 21enne Szoboszlai. Si vedrà chi la spunta dopo l’ultima esibizione in Nazionale di Adam Szalai, prevista per questa sera: a Lipsia, l’attaccante del Basilea ha steso i tedeschi con un colpo di tacco al volo, alla Mancini. Cosa si può pretendere di più?

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(Getty Images) Trequartis­ta Dominik Szoboszlai

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