«Ora il congresso, non correrò» Il passo indietro di Letta
L’analisi del segretario: quando si alzano le paure, la destra vince L’ipotesi di anticipare il confronto interno a gennaio Il sindaco di Bari Decaro attacca: modello da smantellare
ROMA «Quando si alzano le paure, la destra vince. E gli italiani hanno scelto in modo molto chiaro. Oggi è un giorno triste per l’Italia, per l’Europa. Ci aspettano giorni duri». Enrico Letta verso mezzogiorno si sottopone al rito del commento al voto. Il tono è definitivo. Ammette la sconfitta e annuncia un’opposizione «intransigente ma istituzionale» che però non avrà la sua guida: non si dimette ma accompagnerà il Pd al congresso senza, com’era ampiamente prevedibile, ricandidarsi a segretario. Nelle sue intenzioni, potrebbe celebrarsi a gennaio.
«Faremo opposizione dura, siamo capaci di farla. Fortissimo limite di questa campagna elettorale è stato che negli ultimi dieci anni siamo stati sempre al governo», dice commentando i dati elettorali Letta. Che però punta anche il dito. Contro Giuseppe Conte: «Ha fatto cadere Draghi. Il governo Meloni che verrà è una conseguenza alla quale non ci si è potuti opporre». Contro chi ha scelto di non allearsi col Pd, come Carlo Calenda, aprendo la strada alla vittoria del centrodestra anche nei collegi: «Volevano demolirci, volevano sostituirci, non ci sono riusciti. La candidatura di Calenda al collegio di Roma è stato il fuoco amico che ha colpito Emma Bonino. Ma il Pd è secondo partito e prima forza di opposizione». E contro chi, da dentro il suo stesso partito, gli imputa il fallimento: «Ho abbastanza esperienza per sapere che le sconfitte sono sempre molto solitarie».
Fin dalle prime dichiarazioni dei dem, infatti, emerge la voglia di resa dei conti nel partito. Senza appello il giudizio di Alessia Morani: «Una linea politica confusa». Ma sono gli amministratori a rivendicare apertamente un ruolo nel partito.
Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, esordisce con un netto «abbiamo perso, come sempre alle Politiche dal 2008». Quindi indica la strada, come un possibile candidato alla segreteria: «Dobbiamo smantellare l’intero modello su cui il Pd si fonda: basta con i capi corrente che fanno e disfano le liste, basta con questo esercizio del potere per il potere». Parole che irritano Andrea Orlando,
Lo stop di Orlando: per una sconfitta di questa portata non basta cambiare segretario
leader della corrente più di sinistra del partito: «Ma davvero qualcuno è convinto che da una sconfitta di questa portata si esca con un congresso ordinario incentrato sul cambio della leadership? O con la contrapposizione centro-periferia, ripetendo la litania contro le correnti nazionali, magari ben saldi alla guida di filiere locali?». La sua proposta è «una nuova costituente per un Pd oggi irrisolto». Ma dalla «periferia» si levano molte voci. Filtra l’intenzione di Matteo Ricci di succedere a Letta. Più prudente Dario Nardella. «Prima del segretario, cambiamo il Pd». E dall’Emilia-Romagna, ultimo fortino dei progressisti, l’ex sindaco di Bologna e neodeputato, Virginio Merola sollecita il presidente Stefano Bonaccini, tra i più accreditati per la successione già un anno fa dopo le dimissioni di Zingaretti: «Metti da parte i personalismi». E Bonaccini? Per ora usa fair play: «La sconfitta non è mai responsabilità di uno solo, quindi di Letta, ma collettiva. Non è il momento di fare nomi. L’opposizione ci farà bene».