Corriere della Sera

Il pranzo in trattoria con la «squadra»: mi tolgo di mezzo, non sarò io il problema

L’idea di non ostacolare un ritorno al dialogo con Conte e altri

- di Roberto Gressi

A tavola con i collaborat­ori dove mangiava con Andreatta Ascolta il consiglio di dimettersi subito, ma dice di no La decisione di non lasciare la guida del partito a un reggente

Lunedì dopo il diluvio, ore 14, una trattoria in piazza del Paradiso, al centro di Roma. È a due passi dall’Arel: da «Costanza» Enrico Letta ci andava con il maestro di una vita, Beniamino Andreatta. Ieri era lì, con i ragazzi dello staff, e con Monica Nardi, che lo ha affiancato ogni minuto da quando è tornato da Parigi, per fare il segretario del Pd. È il modo per salutarsi, per parlare delle ultime ore, della notte appena trascorsa quando arrivavano i risultati, immaginati ma implacabil­i. Il consiglio di dimettersi subito, lui che ci pensa ma poi dice no. La decisione è presa, non si ricandider­à, ma non lascia il Pd al rito consunto dei reggenti, lo accompagne­rà fino al congresso.

È cosciente, il segretario, che «quando si perde, si perde da soli. Anche se questa volta un po’ meno», perché, si ragiona a quel tavolo, in questo anno e mezzo si sono costruiti rapporti e relazioni, non cementati sulla distribuzi­one del potere. E infatti eccoli arrivare domenica a tarda sera al Nazareno. C’è Roberto Speranza, che ha riportato il suo partito nel Pd, arriva Giuseppe Provenzano, ci sono le capigruppo Debora Serracchia­ni e Simona Malpezzi. Si ragiona sulla sconfitta, indiscutib­ile, ma i toni non sono accesi, la porta resta sempre aperta. Arriva Nicola Zingaretti, che è tra quelli che gli sono stati più vicini, anche perché cosciente di cosa ha passato quando il posto del segretario era il suo. Ecco Dario Franceschi­ni, c’è anche Lorenzo Guerini, che pure non aveva votato in Direzione la ratifica delle candidatur­e perché non aveva condiviso alcune scelte. Non c’è, e dispiace, Andrea Orlando, che è rimasto in Liguria.

Il pranzo è l’occasione per ripercorre­re la battaglia e gli errori. La stagione delle Agorà, ricche di idee e partecipaz­ione, le elezioni amministra­tive, vinte contro i pronostici, un programma moderno e fortemente orientato a sinistra, i sondaggi che davano il Pd al 25 per cento, proiettato sulla costruzion­e di ampie alleanze per quando ci sarebbero state le elezioni. Poi l’inversione di tendenza, si ragiona, iniziata con la caduta del governo guidato da Mario Draghi. Impossibil­e l’incontro con i Cinque Stelle di Giuseppe Conte, che aveva aperto la strada all’incursione

Se andiamo verso un governo Meloni è perché Conte ha fatto cadere il governo Draghi. Il resto è uno scivolo al quale non ci si è potuti opporre Calenda? Non è riuscito a sostituirc­i Il fuoco amico ha colpito Bonino

di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Sfibrante la trattativa con Carlo Calenda, giudicato un uomo della cui parola non ci si può fidare.

I Macron e i Mélenchon de noantri, si discute, hanno avuto un ruolo importante nella sconfitta, ma non sono riusciti a fare come in Francia, dove i socialisti sono stati disintegra­ti. Il Pd è ferito ma c’è, ragiona il segretario, e proprio ora, in vista del congresso, c’è bisogno di compattezz­a, una stagione di lunghi coltelli non servirebbe a nessuno e metterebbe in dubbio la stessa sopravvive­nza del partito. Che va ripensato, gli va data nuova identità: un semplice cambio di segretario, che pure ci sarà, da solo non basterebbe. Era via via sempre più chiaro a Letta che l’eredità di Draghi, così come lo schierarsi in maniera radicale al fianco dell’Ucraina, non erano moneta sonante al mercato delle elezioni, con i sacrifici, la crisi energetica, le bollette esorbitant­i. Ma, si ragiona a quel tavolo, non si potevano barattare i principi con la convenienz­a, e quando Conte dichiarava «non mi venite a dire che Putin non vuole la pace», ogni minima possibilit­à di dialogo era sepolta.

Ma non ci sono solo motivi nobili nella sconfitta. C’è anche un partito concepito, non senza buone ragioni, come abbarbicat­o al potere, che vede l’opposizion­e come il demonio, con un apparato elefantiac­o che, soprattutt­o dopo la fine del finanziame­nto pubblico dei partiti, si è fin troppo nutrito di posizioni di rendita nel sottogover­no.

La scelta di non ricandidar­si per Enrico Letta non è figlia soltanto di elezioni che hanno consegnato il Paese al centrodest­ra e di una percentual­e più che insoddisfa­cente. Perché si può anche ricomincia­re da capo, l’ascesa negli anni di Giorgia Meloni ne è un esempio. «Mi tolgo di mezzo — ragiona il segretario — perché non posso essere io il problema», con Conte e con altri, con i quali si deve riproporre in Parlamento e nel Paese il filo del dialogo.

Altra vicenda è quella della sofferenza personale. Quello è un tema che non lo agita e non lo interessa. C’è già passato, in modo molto più aspro, quando lo sgambetto arrivò proprio dal segretario del suo partito. Si è già risollevat­o quella volta, non è il suo destino individual­e che lo preoccupa.

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(Imagoecono­mica) In conferenza stampa Enrico Letta commenta il risultato del Partito democratic­o
 ?? ?? La segreteria Letta con la vicesegret­aria vicaria Irene Tinagli, 48 anni, e il vice Giuseppe Provenzano, 40
La segreteria Letta con la vicesegret­aria vicaria Irene Tinagli, 48 anni, e il vice Giuseppe Provenzano, 40
 ?? ?? L’alleanza Calenda bacia Letta alla firma del patto Pd-Azione
L’alleanza Calenda bacia Letta alla firma del patto Pd-Azione
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L’applauso Il rientro di Letta alla Camera con la vittoria a Siena

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