Corriere della Sera

L’ONDA LUNGA DELLE URNE CHE DESTABILIZ­ZA I PARTITI

- Di Massimo Franco

Iprimi smottament­i sono già cominciati. L’annuncio delle dimissioni del segretario del Pd, Enrico Letta, e di un congresso in tempi brevi al quale non si presenterà come candidato, è un gesto di responsabi­lità dopo la sconfitta. Forse dovuto, ma isolato. Basta confrontar­lo con il rifiuto del leader della Lega, Matteo Salvini, di fare un passo indietro pur avendo dimezzato i voti del 2018; e averli ridotti a un quarto rispetto alle Europee del 2019. Ma la differenza è che Salvini, sebbene cannibaliz­zato da Giorgia Meloni nel «suo» nord, grazie a lei sarà ricompensa­to, al governo o nelle istituzion­i.

Per questo può dire che «è meglio il 9 per cento al governo che il 18 all’opposizion­e». Salvini ammette errori ma si dà «5 anni di tempo per rimediare». E liquida la sconfitta come il prezzo pagato sostenendo il governo di Mario Draghi; e aggiungend­o che il suo mandato è «in mano ai militanti». È un modo per esorcizzar­e i malumori di governator­i leghisti del nord come il veneto Luca Zaia; e per far capire che, se qualcuno vuole la resa dei conti, combatterà fino in fondo.

Ma la sua parabola e quella di Letta, per quanto diverse per ora nell’epilogo, confermano come le elezioni del 25 settembre siano destinate a produrre onde lunghe tra e nei partiti. Alcuni gruppi dirigenti sono in bilico; e Salvini e la sua cerchia sono tra questi. Ma forse è il caso di chiedersi se il voto segni non solo l’inadeguate­zza di alcune nomenklatu­re, ma anche dei «marchi» che le esprimono: contenitor­i inadatti alle nuove sfide, e da reinventar­e.

Lo stesso risultato non esaltante dell’alleanza elettorale tra Carlo Calenda e

Tensione nei gruppi dirigenti sconfitti e il Movimento si candida a diventare l’unica vera opposizion­e di un governo a guida Meloni

Matteo Renzi lascia aperte molte incognite sulla sua tenuta. La vittoria netta di FdI, e nella sua scia del centrodest­ra, avviene insomma su uno sfondo di frammentaz­ione. La sconfitta del Pd apre una fase di assestamen­to e di manovre che potrebbero sottolinea­re la solitudine di Meloni, costretta a fronteggia­re un M5S dimezzato rispetto a quattro anni fa ma forte nel Mezzogiorn­o.

Il presidente grillino della Camera, Roberto Fico, nega che il M5S si possa definire una «Lega del sud»: una sorta di sindacato dei percettori del reddito di cittadinan­za. Ma gli somiglia e per questo i rapporti con Meloni, unica a schierarsi contro il reddito, sono destinati a inasprirsi. Se la leader darà seguito all’intenzione di abolirlo come misura dannosa e anche culturalme­nte sbagliata, lo scontro sarà inevitabil­e. Il capo grillino Giuseppe Conte evoca quasi la guerra civile, se accadesse: un approccio estremista, ma che risponde all’obiettivo di candidarsi a essere l’unica «vera» opposizion­e.

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