Corriere della Sera

I laureati

- di Massimo Gramellini

L’altra mattina mi sono svegliato e non so se ho trovato l’invasor, ma di sicuro ho pensato: dopo la Juve in serie B e la Meloni premier, adesso posso dire di averle viste tutte. Quanto mi sbagliavo. Non avevo ancora visto Di Battista esortare Di Maio a prendersi la laurea. Intendiamo­ci, i dioscuri di Grillo si sono sempre cordialmen­te detestati. Chiedendo scusa agli eredi per la efferata smodatezza del paragone, Dibba stava a Di Maio come Che Guevara a Fidel Castro. L’uno sentimenta­le e l’altro razionale, l’uno di pennacchio e l’altro di potere. Perciò, all’indomani della repentina e catastrofi­ca eclissi dell’astro dimaiano, il calcio dell’asino era nell’aria. Sono le modalità del calcio a lasciare esterrefat­ti, perché certe prediche ce le saremmo aspettate dagli aristocrat­ici del

Pd, riuniti nell’ormai metafisico circolo del golf di Capalbio evocato dalla Meloni. Non da uno come Di Battista che, dall’alto della sua laurea al Dams, ha deriso per anni la cultura borghese e ha rifuggito qualunque cosa assomiglia­sse a un percorso lavorativo tradiziona­le, anzi a un percorso lavorativo tout court, trasforman­dosi in un riuscito esperiment­o di fuoricorso esistenzia­le.

Invece, dopo averci frantumato gli zebedei con la bislacca teoria che in politica la competenza è pura zavorra, adesso se ne salta fuori con una raccomanda­zione da vecchia zia. Senza rendersi conto che, in bocca a lui, quel riferiment­o perentorio alla laurea da prendere fa piuttosto pensare alla celebre lettera di Totò, Peppino e la Malafemmin­a, che poi sarebbe Conte.

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