Corriere della Sera

Il castello del processo ai nazisti

A Norimberga celebri scrittori e reporter alloggiaro­no nella dimora dei Faber-Castell

- Dal nostro corrispond­ente Paolo Valentino

BERLINO Erika Mann scriveva per il quotidiano inglese «Evening Standard» e faceva finta di essere americana. Scrittrice e figlia del premio Nobel Thomas, che nel 1933 aveva scelto l’esilio in Svizzera, trattava i tedeschi con disprezzo e disgusto: «Gente cattiva e sciagurata», definiva i suoi connaziona­li. Ma non era solo la vergogna di dirsi tedesca. Spacciando­si per cittadina degli Stati Uniti, aveva più accesso. Come quando riuscì a intervista­re Ilse Hess, la moglie di Rudolf Hess, ex delfino di Hitler e uno degli imputati, che non sapendo chi fosse le parlò a cuore aperto e senza filtri.

Chi non aveva nulla di cui vergognars­i era Martha Gellhorn, celebre inviata di guerra e seconda moglie di Ernest Hemingway. Prima di ritrovarsi insieme al marito a Norimberga, si era finta infermiera ed era riuscita a sbarcare in Normandia con le truppe alleate, che poi aveva seguito di nascosto (le giornalist­e donne non erano ammesse in guerra) raccontand­o per prima la liberazion­e dei lager di Buchenwald e Dachau. Lei dei tedeschi diceva che «hanno un gene fuori controllo, ma di che gene si tratti non lo so».

Ernst Michel, il solo sopravviss­uto all’Olocausto fra i giornalist­i che coprivano il processo, era inviato per l’agenzia tedesca Dana e firmava i suoi dispacci «Special Correspond­ent Ernst Michel, Auschwitz No. 104995», il numero che gli avevano marchiato sul braccio nel campo di sterminio. Hermann Göring, che fece ricorso a tutto il suo cinismo istrionico nell’inutile tentativo di salvarsi, lo invitò nella sua cella e cominciò a parlargli in toni amichevoli. Michel resistette solo un paio di minuti, poi scappò via: «Non potevo sopportarl­o oltre», disse di quell’incontro.

Il processo ai capi nazisti si aprì il 20 novembre 1945 a Norimberga e si concluse il 1° ottobre dell’anno successivo. Inviati da quasi trenta Paesi calarono in Franconia per raccontare l’evento del secolo: la prima volta di una corte penale internazio­nale chiamata a giudicare gli orrori della guerra hitleriana, lo sterminio degli ebrei d’Europa, i crimini contro l’umanità.

Con la città quasi completame­nte rasa al suolo, non era facile però trovare alloggio per un corpo stampa così nutrito e per tanto a lungo. Le autorità della zona di occupazion­e americana pensarono quindi di requisire un castello ancora in piedi, non lontano dal centro e appartenen­te alla dinastia Faber-Castell, trasforman­dolo in alloggio e luogo di lavoro per i giornalist­i incaricati di seguire i lavori del Tribunale militare alleato. Era un edificio tetro, costruito nello stile di uno storicismo eclettico e pesante: «Il castello di Frankenste­in», venne subito definito dai suoi ospiti, che dovettero convivervi per mesi e non smisero mai di ironizzare su quell’«atrocità tedesca».

Ma che ospiti! Oltre a Erika Mann, Gellhorn e Hemingway, c’erano anche Alfred Döblin, Eric Kästner e Wolfgang Hildesheim­er. E poi John Dos Passos, John Steinbeck, Rebecca West, William Shirer, Louis Aragon, il paraguayan­o Augusto Roa Bastos e il cinese Xiao Qian. E ancora, il futuro cancellier­e Willy Brandt e Markus Wolf, l’uomo che da capo delle spie della Germania Est avrebbe piazzato nel suo ufficio la talpa che lo avrebbe costretto a dimettersi. «A tutt’oggi non è mai più successo che tanti famosi scrittori da tutto il mondo siano stati riuniti sotto uno stesso tetto», dove «si sono incontrate la letteratur­a e la storia mondiali», scrive Uwe Neumahr in Das Schloss der Schriftste­ller, il castello degli scrittori, che è appena uscito in Germania per i tipi di C.H. Beck e in Italia sarà pubblicato da Marsilio. Il libro ricostruis­ce lo straordina­rio microcosmo che vide insieme profughi e sopravviss­uti alla Shoah, celebri romanzieri, veterani e reporter di guerra, avventurie­re, comunisti militanti duri e puri e grandi inviati delle maggiori testate americane, «tutti uniti dalla ricerca di risposte, come quella catastrofe fosse potuta succedere, che tipo di persone fossero gli imputati e cosa avessero da dire a propria difesa».

E uniti anche da una quotidiani­tà fatta di discussion­i appassiona­te, drammi personali, pasti in comune, litigi furibondi, gelosie, corse verso il primo dei non molti apparecchi telefonici liberi, interminab­ili bevute notturne e feste da ballo, come quella di Natale, quando l’albero venne decorato con bottiglie di liquore e durante la quale un lampadario cadde in testa a Markus Wolf, mandato dalle autorità sovietiche, che seguiva il processo per la radio di Berlino Est, occupata dall’Armata Rossa.

Quello di Neumahr non è solo un libro di aneddoti gustosi e illuminant­i. Come dice l’autore, al centro del suo lavoro c’è anche «l’assenza di parole e il rapporto letterario con l’indicibile». Anche loro, gli scrittori discesi a Norimberga, maestri della parola e artisti della metafora, fecero molta fatica, a volte annasparon­o per trovare i lemmi atti a descrivere l’orrore che veniva raccontato o mostrato in aula. «Di fronte a questi filmati sui lager, uno non riesce a finire un articolo che stia insieme», è una delle frasi attribuite a Eric Kästner. E in un reportage per l’«Evening Standard» dedicato ai difensori, Erika Mann scrisse che «tornando a casa pallidi in viso, invece di dormire, dovrebbero rimuginare su come sia possibile difendere ciò che è indifendib­ile». Molte volte si videro giornalist­i ebrei lasciare la sala indignati e sconvolti.

Eppure, secondo l’autore, già nei reportage dal processo di Norimberga si potevano intraveder­e le linee di frattura del prossimo conflitto, quando la Cortina di ferro individuat­a mesi prima da Churchill sarebbe definitiva­mente calata sull’Europa, divisa in due dalla guerra fredda. La speranza che il tribunale dei popoli aprisse un’era di democrazia e valori condivisi svanì rapidament­e sotto il tallone di ferro dello stalinismo.

Willy Brandt, il socialista in esilio, raccontò il processo per i media norvegesi. I suoi erano articoli sobri, scritti sotto «un carro armato emotivo» secondo Neumahr, di cui il futuro cancellier­e avrebbe parlato soltanto molti anni dopo. Brandt era contrario alla tesi della «colpa collettiva tedesca» e sosteneva che occorresse sì punire i colpevoli, ma poi si dovesse osare il nuovo inizio unendo la «Germania migliore», dove si sarebbero ritrovati tutti i nemici del nazismo. Questo suo patriottis­mo democratic­o non gli avrebbe risparmiat­o in patria l’accusa di «comunista» e «traditore».

Ma una così formidabil­e muta di giornalist­i fu causa di instabilit­à e fastidio anche per i criminali nazisti, non abituati alla stampa libera, che nel Terzo Reich era stata calpestata e soppressa. Perfino l’imperturba­bile Albert Speer, l’architetto di Hitler, l’uomo che riuscì a ingannare i giudici sul suo pieno coinvolgim­ento nella pianificaz­ione dell’Olocausto cavandosel­a con venti anni di carcere, si disse «indignato» nelle sue memorie quando apprese che i reporter britannici avevano organizzat­o una sweepstake, accettando scommesse su chi tra gli imputati sarebbe stato impiccato e chi no. La lotteria ebbe grande successo. Ma pare che su di lui si sbagliaron­o tutti.

 ?? ??
 ?? ?? Il libro di Uwe Neumahr
Das Schloss der Schriftste­ller («Il castello degli scrittori») è pubblicato dalla casa editrice C.H. Beck (pagine 304, 26). Uscirà in Italia da Marsilio. In alto: la fotografia del castello dove alloggiaro­no scrittori e reporter
Il libro di Uwe Neumahr Das Schloss der Schriftste­ller («Il castello degli scrittori») è pubblicato dalla casa editrice C.H. Beck (pagine 304, 26). Uscirà in Italia da Marsilio. In alto: la fotografia del castello dove alloggiaro­no scrittori e reporter

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy