«Per uno stalker come l’assassino i soli ammonimenti non bastavano»
Luigi Cancrini lei è uno psichiatra di lungo corso e grande esperienza: ha seguito la vicenda di Barbara Padovani, la psichiatra uccisa a Pisa da un suo ex paziente? «Sì, ho seguito».
Che considerazioni le vengono? C’è qualcosa che si può fare per evitare queste tragedie?
«Eliminare del tutto i danni della follia non si può. Ma si deve lavorare per ridurli. Bisogna cominciare dalle strutture».
Cosa intende?
«Non ci sono abbastanza strutture per i pazienti psichiatrici. In particolare per pazienti tipo quello di cui stiamo parlando».
Che tipo di paziente Gianluca Paul Seung ?
«Il suo è un atteggiamento da stalker. La diagnosi ufficiale è di disturbo di personalità. Con caratteristiche: narcisista, antisociale, paranoica».
Cosa comporta una diagnosi così?
«Il tratto paranoico ha un aspetto delirante. A questo paziente era stato intimato di non avvicinarsi alla sua psichiatra. Ma con un simile disturbo del pensiero non ha alcun senso un ammonimento di questo tipo. Anzi, può peggiorare la situazione. Il paziente paranoico si sente perseguitato e farà di tutto per andare oltre quell’ammonimento».
Quindi?
«Quando ero in Parlamento, durante il governo Prodi, si stava discutendo una legge sullo stalking. Proposi un emendamento che prevedeva, per legge, una collaborazione tra gli psichiatri e i magistrati».
Ovvero?
«Prendiamo l’esempio di un marito violento che la moglie ha denunciato, magari più volte. Il magistrato recepisce la denuncia imponendo all’uomo quell’ammonimento che dicevamo prima, ovvero che non si deve avvicinare all’abitazione della moglie. Quali sono gli effetti tragici li abbiamo troppo spesso sotto gli occhi».
E l’intervento di uno psichiatra che cosa può fare in questi casi?
«Può valutare il rischio concreto. E suggerire al giudice una restrizione al soggetto. Il medico da solo non può fermare la pericolosità. E il giudice da solo non ha gli strumenti per capire il grado di pericolosità».
A che tipo di restrizione allude?
«Al ricovero nelle Rems, le strutture alternative che sono state create quando nel 2015 vennero chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma ne sono state create troppo poche».
Il suo emendamento non è stato approvato?
«Non venne proprio approvata la legge che invece quando la ripresentò Mara Carfagna ebbe il plauso del Parlamento. Ma di quello che diceva il mio emendamento non c’è traccia. Così come non c’è traccia nella legge del “Codice rosso”».
Come si può fare quindi per far diventare concreta questa collaborazione tra magistrati e psichiatri?
«Integrare la legge Basaglia e aggiungere questa collaborazione. La costrizione di un soggetto non può essere limitata soltanto al Tso fatto nel momento acuto».
La legge Basaglia quest’anno compie 45 anni che bilancio le viene da fare?
«Nel 1984 facemmo una ricerca sui delitti improvvisi e immediatamente ascrivibili alla follia negli anni prima e dopo l’approvazione della legge Basaglia, ovvero nel 1974 e nel 1984. Venne fuori che era nettamente più basso il numero di quelli avvenuti nel 1984, quando i manicomi erano stati chiusi da quattro anni».
Quindi la legge Basaglia funziona? Abbiamo detto prima che le strutture psichiatriche sono largamente insufficienti.
Non ci sono abbastanza strutture per i malati psichiatrici La costrizione di questi soggetti non può essere limitata solo ai ricoveri fatti nelle fasi acute
«Sì e non stiamo parlando soltanto di Rems, ma anche di cliniche convenzionate e di comunità».
E allora? Cosa vuol dire? «Questo non è colpa della legge Basaglia».
E di chi?
«Di chi quelle strutture non le costruisce».
Cioè?
«La legge Basaglia enuncia dei principi e rimanda la creazione delle strutture ai piani sanitari nazionali e regionali. Qui sta il problema, ripeto: molte delle cose che avrebbero dovuto essere fatte non sono state fatte».