Siamo una comunità, come ai tempi di Diego
Questo non è uno scudetto qualsiasi, è unico e diverso Ci si sente parte di questa vittoria: la nemesi e il merito
Non è uno scudetto qualsiasi, credetemi. È uno scudetto vinto dal Napoli. È furore agonistico, gioia pura e trasversale a ogni fascia della società, a ogni quartiere. È nemesi. Soprattutto, è merito. Qualcuno dirà: è sempre così, chiunque lo vinca. E invece no: insisto. Uno scudetto vinto dal Napoli non è come uno scudetto vinto da un’altra squadra.
D’accordo: è la mia squadra, la squadra della città in cui sono nato, ed è la squadra per cui ho sempre tifato, e quindi questa eccezionalità potrei vederla soltanto io (in verità insieme a milioni di altri tifosi), potrebbe essere giustificata dalle lenti particolari che indosso, le lenti della nostalgia, della saudade provocata da un allontanamento forzato. L’unicità di questo scudetto potrei vederla, ancora, per un motivo semplicissimo: perché sono un tifoso, e ogni tifoso ravvisa qualcosa di assolutamente unico nella propria squadra. Ma io insisto ancora: non è questo. Almeno, non è solo questo. Fornirò qualche ragione che esula dal mio coinvolgimento personale, e altre che lo investono pienamente.
Le solite tre
Negli ultimi vent’anni, le squadre di calcio che hanno vinto il campionato sono state tutte del Nord, e sono state soltanto tre. Le solite: Juve, Milan e Inter. Fino al punto che sul tema scudetto si è posta una sorta di Questione meridionale. Senza voler sottrarre meriti a nessuno e senza riferirmi ad alcun caso in particolare, voglio comunque osservare come lo scudetto sia una meta più docile da raggiungere quando sono in gioco, oltre ai calciatori, cospicui investimenti finanziari, articolati assetti societari e perfino politici. Sarebbe da stupidi negare che il Nord Italia è un luogo più ricco rispetto al Sud. Sarebbe miope non intuire che questa ricchezza si travasa nel calcio come in qualunque altro sport. Storicamente, le squadre che vincono il campionato appartengono ai gruppi imprenditoriali più potenti della penisola. Oggi siamo di fronte a un miracolo. È un miracolo di De Laurentiis aver imbastito una squadra simile tenendosi lontano dai debiti, senza lasciarsi strozzare dai cravattari, tirando in mezzo banche e fondi mediorientali e, soprattutto, impedendo alle bande ultras — spesso pericolosamente vicine ad ambienti criminali — di spadroneggiare.
Il Napoli non è solo una squadra del Sud, ma una squadra meridionale sostenuta solo da meridionali, visto che per ragioni storiche, legate principalmente all’emigrazione nel nostro Paese, molti meridionali tifano per squadre del Nord. È una vittoria unica, perché vincere un trofeo del genere, a Napoli, va ben oltre l’entusiasmo sportivo. La città lo vede come una affermazione di sé. Fa ridere sentir ripetere, in questi giorni, la mitica frase che fu di don Pietro Savastano: «Ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost’», ma così è. La sensazione è di essere sempre ultimi perché nati svantaggiati, la consapevolezza che o te ne vai e lasci la tua città, la tua famiglia, i tuoi affetti o devi accontentarti di quel che c’è: servizi pubblici sempre in affanno, scuole fatiscenti, amministratori che si considerano reucci, a cui nemmeno la politica nazionale riesce a porre un argine. Oggi anche i non sportivi, perfino chi non ha mai visto una partita di calcio, anzi di pallone, si sente parte del gioco; allegra quando il Napoli gioca bene, insofferente nella sconfitta immeritata, delusa nell’inciampo, estasiata nella vittoria. L’umore cittadino, il suo mood, è innescato o smontato dalla squadra. Nessuno è escluso da questa vita che tracima dal vaso sportivo e inonda tutta la città. È come se il Napoli non fosse la squadra della città ma, al contrario, fosse la città ad appartenere alla squadra. E lo si è notato dall’impossibilità di contenere, nonostante la vocazione scaramantica ben conosciuta, la celebrazione anticipata e irrituale dello scudetto, partita mesi prima della vittoria.
Nessun pretesto
Parliamoci chiaro: è una fortuna che il Napoli abbia vinto con un margine così ampio, che la sua vittoria sia stata così eclatante, perché altrimenti, se l’avesse spuntata con un margine risicato, ci sarebbero state mille diverse interpretazioni e mille pretesti a cui appigliarsi per trascinare giù i meriti della squadra. E non perché esista un complotto ai danni di Partenope o per chissà quali altre ragioni strategiche, ma in base a quella semplice consuetudine padronale delle solite squadre, quell’abitudine ad arbitrare non la partita — oddio, a volte anche quella — ma la stessa vita sportiva. La vittoria del Napoli è inconsueta, ecco. E oltre a essere inconsueta, la vittoria del Napoli è straordinaria. È una pernacchia in faccia a certi signori. A certi giochetti. Riporta tutti con i piedi per terra, sull’erba, in mezzo a un campo da calcio, dove le chiacchiere stanno a zero e conta soltanto chi sa giocare meglio a pallone.
E vi prego, permettetemi una nota personale: per me il calcio è politica, antropologia distillata nei polpacci dei giocatori, nei cori dei tifosi. Quindi ogni gesto, e ogni atto, per me sono simbolici. Come avere Khvicha Kvaratskhelia, un giocatore sconosciuto, mio padre la scorsa estate, pronunciando male il suo nome, mi disse: «È straordinario l’ho visto giocare in Under 21 e i fessi dei tedeschi non l’hanno preso». Insomma, Kvara arriva e il suo gioco astuto, veloce, da giocoliere lo rende il catalizzatore di tutti gli sguardi, dell’ammirazione anche di chi mai tiferà per il Napoli. E il suo essere contro Putin a favore dell’ingresso della Georgia nell’Unione europea, lo rende simpatico e coraggioso, lui che aveva lasciato la squadra russa di cui era attaccante tornando a Tbilisi appena Putin ha invaso l’Ucraina.
È pura illusione, me ne rendo conto: è chiaro come il sole che i trionfi nel pallone non contribuiscono a nessuna riforma della società. Ma l’illusione non è sempre sterile. Talvolta mostra una possibilità. Ciò che altrove non riesci a ottenere, spesso per cause che non riguardano te, riesci invece a ottenerlo in campo, in nome e per conto di un popolo intero.
Costruttore di comunità
Un popolo e una città spesso indecifrabili, come ha scritto lo stracitato Curzio Malaparte, la cui vittoria è il frutto del disegno di un allenatore altrettanto indecifrabile come Luciano Spalletti. Spalletti ossessionato dalla velocità. Spalletti che ha trascinato i giocatori fino alla fine del campionato. Spalletti che ha una filosofia: nessuno è campione da solo, non esiste un leader, non esiste un re. La squadra è una comunità.
In fondo, è questo che Spalletti rappresenta. È un costruttore di comunità. Indifferente al clima che si respira, anche il più avvelenato. Scevro dalle pressioni sui nomi da far girare. Spalletti costruisce, costruisce e basta, a partire da mattoni grezzi o perlomeno considerati tali. E allora eccoci qui, fra scalinate azzurre in una giungla metropolitana in cui le bandiere legano come liane una balconata all’altra. Le tre squadre che egemonizzano giornali e pubblicità, commentatori e spazi pubblici, stavolta sono state fermate. Stavolta l’attenzione se la sono presa con la forza, una forza solo agonistica, i napoletani. Se la sono presa senza bisogno di comprare spazi per le campagne abbonamenti, senza il favore dei media. Talento puro. Talento e basta.
Il bambino e Maradona
Avevo undici anni quando il Napoli vinse l’ultimo scudetto, ebbi la fortuna d’essere bambino quando c’era Maradona, e anche lì ci sentivamo comunità, comunità vera, anche contro il sangue del tuo sangue che tifava diversamente: «parimm na famiglia sultant dint’ cà» (come cantava il grande Nino D’Angelo del San Paolo di quegli anni). Il mio amatissimo cugino Stefano — anzi, fratocugino, come si dice nella mia terra — tifava per la Juventus, perché per troppi anni il Napoli era stata una squadra senza vittorie.
Napoli e il Napoli per me sono tutto. Sono carne e sangue, vita e morte, felicità e nostalgia. Il Napoli ha, per me, il volto bonario di mio padre. È lui che mi ha fatto appassionare a questa squadra ancora prima che iniziassi a camminare, è con lui che ogni cosa è iniziata... E ora, cos’altro dire? Abbiamo vinto. Finalmente m’immergo con gioia in un plurale in cui mi riconosco.
Spalletti è un costruttore di comunità, indifferente al clima che si respira, anche il più avvelenato Questa è una gioia trasversale