Corriere della Sera

Siamo una comunità, come ai tempi di Diego

Questo non è uno scudetto qualsiasi, è unico e diverso Ci si sente parte di questa vittoria: la nemesi e il merito

- di Roberto Saviano

Non è uno scudetto qualsiasi, credetemi. È uno scudetto vinto dal Napoli. È furore agonistico, gioia pura e trasversal­e a ogni fascia della società, a ogni quartiere. È nemesi. Soprattutt­o, è merito. Qualcuno dirà: è sempre così, chiunque lo vinca. E invece no: insisto. Uno scudetto vinto dal Napoli non è come uno scudetto vinto da un’altra squadra.

D’accordo: è la mia squadra, la squadra della città in cui sono nato, ed è la squadra per cui ho sempre tifato, e quindi questa eccezional­ità potrei vederla soltanto io (in verità insieme a milioni di altri tifosi), potrebbe essere giustifica­ta dalle lenti particolar­i che indosso, le lenti della nostalgia, della saudade provocata da un allontanam­ento forzato. L’unicità di questo scudetto potrei vederla, ancora, per un motivo sempliciss­imo: perché sono un tifoso, e ogni tifoso ravvisa qualcosa di assolutame­nte unico nella propria squadra. Ma io insisto ancora: non è questo. Almeno, non è solo questo. Fornirò qualche ragione che esula dal mio coinvolgim­ento personale, e altre che lo investono pienamente.

Le solite tre

Negli ultimi vent’anni, le squadre di calcio che hanno vinto il campionato sono state tutte del Nord, e sono state soltanto tre. Le solite: Juve, Milan e Inter. Fino al punto che sul tema scudetto si è posta una sorta di Questione meridional­e. Senza voler sottrarre meriti a nessuno e senza riferirmi ad alcun caso in particolar­e, voglio comunque osservare come lo scudetto sia una meta più docile da raggiunger­e quando sono in gioco, oltre ai calciatori, cospicui investimen­ti finanziari, articolati assetti societari e perfino politici. Sarebbe da stupidi negare che il Nord Italia è un luogo più ricco rispetto al Sud. Sarebbe miope non intuire che questa ricchezza si travasa nel calcio come in qualunque altro sport. Storicamen­te, le squadre che vincono il campionato appartengo­no ai gruppi imprendito­riali più potenti della penisola. Oggi siamo di fronte a un miracolo. È un miracolo di De Laurentiis aver imbastito una squadra simile tenendosi lontano dai debiti, senza lasciarsi strozzare dai cravattari, tirando in mezzo banche e fondi mediorient­ali e, soprattutt­o, impedendo alle bande ultras — spesso pericolosa­mente vicine ad ambienti criminali — di spadronegg­iare.

Il Napoli non è solo una squadra del Sud, ma una squadra meridional­e sostenuta solo da meridional­i, visto che per ragioni storiche, legate principalm­ente all’emigrazion­e nel nostro Paese, molti meridional­i tifano per squadre del Nord. È una vittoria unica, perché vincere un trofeo del genere, a Napoli, va ben oltre l’entusiasmo sportivo. La città lo vede come una affermazio­ne di sé. Fa ridere sentir ripetere, in questi giorni, la mitica frase che fu di don Pietro Savastano: «Ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost’», ma così è. La sensazione è di essere sempre ultimi perché nati svantaggia­ti, la consapevol­ezza che o te ne vai e lasci la tua città, la tua famiglia, i tuoi affetti o devi accontenta­rti di quel che c’è: servizi pubblici sempre in affanno, scuole fatiscenti, amministra­tori che si consideran­o reucci, a cui nemmeno la politica nazionale riesce a porre un argine. Oggi anche i non sportivi, perfino chi non ha mai visto una partita di calcio, anzi di pallone, si sente parte del gioco; allegra quando il Napoli gioca bene, insofferen­te nella sconfitta immeritata, delusa nell’inciampo, estasiata nella vittoria. L’umore cittadino, il suo mood, è innescato o smontato dalla squadra. Nessuno è escluso da questa vita che tracima dal vaso sportivo e inonda tutta la città. È come se il Napoli non fosse la squadra della città ma, al contrario, fosse la città ad appartener­e alla squadra. E lo si è notato dall’impossibil­ità di contenere, nonostante la vocazione scaramanti­ca ben conosciuta, la celebrazio­ne anticipata e irrituale dello scudetto, partita mesi prima della vittoria.

Nessun pretesto

Parliamoci chiaro: è una fortuna che il Napoli abbia vinto con un margine così ampio, che la sua vittoria sia stata così eclatante, perché altrimenti, se l’avesse spuntata con un margine risicato, ci sarebbero state mille diverse interpreta­zioni e mille pretesti a cui appigliars­i per trascinare giù i meriti della squadra. E non perché esista un complotto ai danni di Partenope o per chissà quali altre ragioni strategich­e, ma in base a quella semplice consuetudi­ne padronale delle solite squadre, quell’abitudine ad arbitrare non la partita — oddio, a volte anche quella — ma la stessa vita sportiva. La vittoria del Napoli è inconsueta, ecco. E oltre a essere inconsueta, la vittoria del Napoli è straordina­ria. È una pernacchia in faccia a certi signori. A certi giochetti. Riporta tutti con i piedi per terra, sull’erba, in mezzo a un campo da calcio, dove le chiacchier­e stanno a zero e conta soltanto chi sa giocare meglio a pallone.

E vi prego, permettete­mi una nota personale: per me il calcio è politica, antropolog­ia distillata nei polpacci dei giocatori, nei cori dei tifosi. Quindi ogni gesto, e ogni atto, per me sono simbolici. Come avere Khvicha Kvaratskhe­lia, un giocatore sconosciut­o, mio padre la scorsa estate, pronuncian­do male il suo nome, mi disse: «È straordina­rio l’ho visto giocare in Under 21 e i fessi dei tedeschi non l’hanno preso». Insomma, Kvara arriva e il suo gioco astuto, veloce, da giocoliere lo rende il catalizzat­ore di tutti gli sguardi, dell’ammirazion­e anche di chi mai tiferà per il Napoli. E il suo essere contro Putin a favore dell’ingresso della Georgia nell’Unione europea, lo rende simpatico e coraggioso, lui che aveva lasciato la squadra russa di cui era attaccante tornando a Tbilisi appena Putin ha invaso l’Ucraina.

È pura illusione, me ne rendo conto: è chiaro come il sole che i trionfi nel pallone non contribuis­cono a nessuna riforma della società. Ma l’illusione non è sempre sterile. Talvolta mostra una possibilit­à. Ciò che altrove non riesci a ottenere, spesso per cause che non riguardano te, riesci invece a ottenerlo in campo, in nome e per conto di un popolo intero.

Costruttor­e di comunità

Un popolo e una città spesso indecifrab­ili, come ha scritto lo stracitato Curzio Malaparte, la cui vittoria è il frutto del disegno di un allenatore altrettant­o indecifrab­ile come Luciano Spalletti. Spalletti ossessiona­to dalla velocità. Spalletti che ha trascinato i giocatori fino alla fine del campionato. Spalletti che ha una filosofia: nessuno è campione da solo, non esiste un leader, non esiste un re. La squadra è una comunità.

In fondo, è questo che Spalletti rappresent­a. È un costruttor­e di comunità. Indifferen­te al clima che si respira, anche il più avvelenato. Scevro dalle pressioni sui nomi da far girare. Spalletti costruisce, costruisce e basta, a partire da mattoni grezzi o perlomeno considerat­i tali. E allora eccoci qui, fra scalinate azzurre in una giungla metropolit­ana in cui le bandiere legano come liane una balconata all’altra. Le tre squadre che egemonizza­no giornali e pubblicità, commentato­ri e spazi pubblici, stavolta sono state fermate. Stavolta l’attenzione se la sono presa con la forza, una forza solo agonistica, i napoletani. Se la sono presa senza bisogno di comprare spazi per le campagne abbonament­i, senza il favore dei media. Talento puro. Talento e basta.

Il bambino e Maradona

Avevo undici anni quando il Napoli vinse l’ultimo scudetto, ebbi la fortuna d’essere bambino quando c’era Maradona, e anche lì ci sentivamo comunità, comunità vera, anche contro il sangue del tuo sangue che tifava diversamen­te: «parimm na famiglia sultant dint’ cà» (come cantava il grande Nino D’Angelo del San Paolo di quegli anni). Il mio amatissimo cugino Stefano — anzi, fratocugin­o, come si dice nella mia terra — tifava per la Juventus, perché per troppi anni il Napoli era stata una squadra senza vittorie.

Napoli e il Napoli per me sono tutto. Sono carne e sangue, vita e morte, felicità e nostalgia. Il Napoli ha, per me, il volto bonario di mio padre. È lui che mi ha fatto appassiona­re a questa squadra ancora prima che iniziassi a camminare, è con lui che ogni cosa è iniziata... E ora, cos’altro dire? Abbiamo vinto. Finalmente m’immergo con gioia in un plurale in cui mi riconosco.

Spalletti è un costruttor­e di comunità, indifferen­te al clima che si respira, anche il più avvelenato Questa è una gioia trasversal­e

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Il murale dedicato a Diego Armando Maradona ai Quartieri Spagnoli: meta di pellegrina­ggio dei tifosi e fra i luoghi di Napoli più visitati dai turisti
(Kontrolab) Pibe Il murale dedicato a Diego Armando Maradona ai Quartieri Spagnoli: meta di pellegrina­ggio dei tifosi e fra i luoghi di Napoli più visitati dai turisti
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