La libertà in versione spray
Vanni Santoni attraversa il mondo multiforme dei «writer», sul confine tra illegalità e arte
Scrivere nel rischio, firmando veloci con la propria tag, dipingere un treno con bombolette spray mentre in testa un cronometro mentale mescola tempo e adrenalina e colori per realizzare un pezzo. Parte da questa ebbrezza Dilaga ovunque, nuovo romanzo di Vanni Santoni, da un climax in mezzo a un deposito di treni di Barcellona in cui tre amici, due donne e un uomo, entrano per tornare ai vecchi tempi, a quando il writing era pratica quotidiana e ideale, comunità underground, formazione attraverso l’effrazione. Questo perché, sarà ben chiaro nella pagine successive, «non può esistere un discrimine netto tra arte e vandalismo quando si parla di graffiti, ci sono approcci su tutta la scala di grigio che va tra questi due poli».
Una del gruppo viene fermata, per poi riuscire a scappare, e il commento del poliziotto vedendo i documenti dà il via al libro: «A su edad!» («Alla sua età!»). Ha un’età intorno ai 45 anni Cristiana, è la protagonista, e il narratore la inquadra usando una seconda persona che la rende complice.
Il romanzo ricostruisce circolarmente il percorso che l’ha portata di nuovo lì, nella notte tra i treni a colorare, ma nel frattempo diventa altro: un romanzosaggio su una galassia che abbraccia streetart, writing e graffiti. Campi che si intrecciano continuamente, dai confini labili come spesso ribadisce il narratore, ma dove le diverse pratiche si pongono a vicenda valide domande. Un esempio è quando partendo dalle pitture rupestri di 17 mila anni fa nelle francesi grotte di Lescaux, che raffigurano animali e piante, il narratore si chiede se «anche i graffiti contemporanei hanno un portato magico». Diverso, ovviamente, rispetto al mondo dei segni in cui viviamo, ma presente.
Il testo è ricco di domande simili, che aprirebbero ad altri approfondimenti, e lo è per l’impostazione che Santoni dà alle sue pagine, accompagnate da immagini esemplari in bianco e nero. Non del tutto un saggio, non del tutto un romanzo, ma un fiume tanto non sistematico quanto completo e ricchissimo di informazioni e spunti per indagare il campo, con una sotterranea vena cronologica e argomentativa che non lascia mai il lettore disorientato, mentre avanza nella linea della vicenda della protagonista. È un modo brillante di affrontare il racconto di una cultura inizialmente underground e calzante per il rispetto che si ha per l’argomento. Una premessa di metodo narrativo che Santoni si pone sempre quando tratta di sottoculture e che rende il romanzo un ulteriore e riuscito pannello da aggiungere a Muro di casse (Laterza, 2015), dedicato ai free party e costruito con un incastro di voci, e a La stanza profonda (Laterza 2017), sui giochi di ruolo, che partiva da una nota più autobiografica. Anche in questo caso, l’autore non cerca una voce autoritaria, non avrebbe senso rispetto al writing anche perché, com’è detto in diversi punti, ogni storia di un fenomeno culturale nato così dalla strada finisce inevitabilmente per scegliere alcuni e escludere altri, per dare una verTdk sione invece di aprire all’idea che le versioni sono tante e diverse, quanti i nomi, qui tantissimi, coinvolti nel proprio disegno, e che i punti fermi sono pochi. Tra questi, in Italia, spicca la performance Telepazzia curata nel 1982 a Bologna da Francesca Alinovi, curatrice tragicamente scomparsa.
Trova, invece, una sua voce articolata e dialogata, in parte appoggiandosi alla fiction, che si svolge in medias res. Cristiana era una writer, ma non una di quelle che ha fatto il salto nelle gallerie d’arte, crescendo o svendendosi a seconda dei punti di vista, e si ritrova a indagare la storia del writing e della street art per dare una mano a un amico (probabilmente lo stesso Santoni) che scrive un libro sul tema. Mentre raccoglie materiali, torna una certa voglia di agire e il suo mettersi in gioco di nascosto per dipingere procede in parallelo con incontri che arricchiscono il tema. Dal ricordo delle «scene» dei graffitari anni Novanta di Bologna, Firenze, Roma e della più complessa Milano, citando la crew, si torna nel presente tra Barcellona, Londra, l’elvetica Basilea: in questi ultimi due casi, aggregandosi alla gallerista snob Lucienne che la porta con sé alle maggiori fiere d’arte internazionale, Frieze Art Fair e Art Basel. Momenti di mercato, visti da una prospettiva laterale, in cui Cristiana incontra vecchi amici ormai integrati in un sistema dove attualmente la punta dell’iceberg di un immaginario, Banksy, «per quanto abbia sempre cercato di mantenere radicale il suo messaggio» vende «pezzi a cifre a sei zeri…». Certo, l’onda che dalla strada ha portato i graffiti nel sistema dell’arte è precedente e ben ricostruita nel racconto di New York a inizio anni Ottanta e di casi a sé come Jean-Michel Basquiat.
Dietro al successo, in tutto il romanzo scorre un altro discorso, centrale nel finale, che riguarda il rapporto tra graffitismo e potere e ricerca di controllo da parte di quest’ultimo, con l’idea normalizzatrice del decoro e pene sempre più aspre per i graffitari. Questo accade «perché scritte e disegni sui muri sono sempre capaci di dar fastidio al potere».
Il potere cercherà sempre di cancellarle, ma la parte chi dipinge ha con sé una domanda collettiva — «A chi appartiene la città?» — e un’inconscia constatazione: «Davanti a tutta quella pulizia, come si fa a resistere? È il tabù che crea il totem». Quindi si ricomincia, dipingendo ovunque.