Il riscatto di Ivan il rugbista «In campo con i migranti ho capito il mio errore»
Nemer e la rieducazione dopo l’offesa razzista a un compagno
SAUZE D’OULX (TORINO) Saluti, strette di mano e abbracci con quelle famiglie e quei ragazzi che partono con uno zaino e poco più. «Auguri...», «auguri anche a te». Sul piazzale della stazione bus di Sauze d’Oulx, in Val di Susa, Ivan Nemer, 25 anni, nato a Buenos Aires, «pilone» della nazionale di rugby squalificato a dicembre (6 mesi) dopo un brutto episodio di razzismo — il regalo di una banana a Cherif Traorè, compagno di squadra in azzurro e alla Benetton, originario dalla Guinea — è emozionatissimo.
A seguito di un percorso di «consapevolezza e sensibilizzazione» avviato già a gennaio dalla Fir, la Federazione della palla ovale, il massiccio atleta ha trascorso alcuni giorni da queste parti, tra Sauze e Bussoleno, alloggiando al rifugio Massi dove dal 2018 operano i medici di Rainbow4Africa, della Croce Rossa e i volontari di Valsusa Oltre Confine. Offrono sostegno e aiuto — un pasto, un giaciglio — a quelle decine di migranti in arrivo da Lampedusa, dal Cara di Capo Rizzuto e dai centri lungo la frontiera con la Slovenia.
Qualche ora di sosta e poi ricominciano il cammino. «Prendono la corriera di linea che sale a Claviere, la stessa alla quale li ho accompagnati io, e da qui, in qualche modo, cercano di entrare in Francia, scendendo a piedi verso Briançon», racconta Ivan che queste storie le ha apprese con i profughi, a cena, a colazione. Dividendo i pasti, rifacendo letti e pulendo stoviglie, il «pilone», aria allegra, ha raccolto drammi in «presa diretta». «Una ragazza mi ha detto di essere stata infibulata e di essere scappata per evitare lo stesso destino a sua figlia, di pochi mesi. Quasi tutti cercano di andare in Francia», ma poi succede che dall’altra parte della frontiera la polizia li blocca, rispedendoli in Val di Susa. «Ho conosciuto un giovane fermato già cinque volte. Io vengo dall’Argentina — puntualizza l’azzurro divenuto italiano poco tempo fa e con il sogno dei Mondiali, a settembre — e tutto questo non lo sapevo. Sfuggono da fame, persecuzioni. Ma rischiano ancora la vita».
È quanto successo martedì notte, dopo il repentino peggioramento del meteo. A raccontarlo è Michele Belmondo, segretario della Croce Rossa in Val Susa che dirige un presidio qui a Bussoleno, altra tappa prevista dalla Federugby nel viaggio di Ivan i cui passi sono seguiti dall’associazione «Il razzismo è una brutta storia».
«Dopo l’allarme siamo partiti in jeep alla ricerca di due gruppi in difficoltà a 2.400 metri di quota». Alcuni erano «scivolati in un crepaccio, senza lesioni. Sono stati loro — racconta il volontario mentre il “pilone”, attentissimo, lo ascolta — a dirci di altri dispersi poi ritrovati mezzi assiderati».
Ivan, in un garage della Croce Rossa, chiude il suo giro vedendo altri migranti ai quali, in un travolgente mix tra italiano e argentino, racconta come sia finito qui, tra loro. Parte da Natale «quando nello spogliatoio della Benetton Treviso, durante il “Secret
Santa” ci siamo scambiati doni anonimi. A Cherif io ho dato una banana che, nel sacchetto, ha finito per marcire». Cherif ha raccontato l’episodio su Instagram «puntualizzando l’aspetto che gli aveva fatto più male: alla vista della banana, tutti avessero riso come se fosse stata una scena normale. Però non era normale, non era solo uno scherzo: ora l’ho capito, e certo sono culpable, colpevole, al 100 per 100. L’ho capito anche ascoltando le vostre storie di sofferenza: sì, il mio è stato un gesto razzista».
Poi è la volta del rugby, quello giocato: «Dai, andiamo a fare qualche lancio» è l’invito del «pilone». Lo seguono una quarantina tra ragazzi e ragazze, tutti entusiasti. La palla ovale vola ovunque, Ivan è nel suo mondo, spiega cosa sia una mischia, la touche, la meta. Gli chiedono pure del calcio, lui sorride: «Stravedo per il Boca». Quando il cielo imbrunisce, ecco il «terzo tempo», applausi, birra e strette di mano.