Corriere della Sera

Nell’abisso una voce dal passato

- Di Maurizio de Giovanni

La seconda volta ricordò, e rimase immobile. La testa sopra il cuscino, appoggiata sul lato sinistro del viso; la mano destra a coprire il seno, le dita che toccavano la base del collo; le gambe disallinea­te, il ginocchio di una sulla coscia dell’altra. Mantenne perfino il respiro regolare, non cedendo alla tentazione di renderlo più profondo per fare scena.

La prima volta era stata colta di sorpresa. Un gemito, un trasalimen­to, qualche parola pronunciat­a a fior di labbra, o almeno così le era sembrato di aver fatto. E allora ecco subito l’ago in vena, e di nuovo il buio.

Adesso però, mentre riemergeva dagli abissi dell’in coscienza, era arrivato Marco.

Sognava pochissimo di Marco; o magari, chissà, quei sogni non restavano a farle compagnia da sveglia, quando si calava corpo e anima nel presente cercando di lasciare il passato in soffitta, in cantina o quello che era. Marco era assai scomodo da rievocare; e non tanto perché fosse morto e sepolto, quanto per la se stessa che tendeva a far venire a galla. Anche in quella visione onirica di origine chimica, portata dalla lotta fra la coscienza e la roba che da chissà quanto le iniettavan­o per tenerla addormenta­ta, Marco era tutt’altro che comodo; come era stato in vita, insopporta­bilmente sincero.

Tu, le aveva detto fissandola con le pupille nere e piene di fuoco che — prima ancora delle mani e dei baci — l’avevano fatta innamorare, tu sei il contrario di te stessa. Lo sei sempre stata.

Che vuoi dire?, domandò lei. Che accidenti vuoi dire? Perché parli sempre in questa maniera complicata? Non lo vedi che mi hanno drogata, che non capisco? Lui proseguì: sembri forte, e sei fragile. Sembri amara, e sei dolce. Sembri istintiva, e sei razionale. Ragiona. Rifletti.

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