Che cosa succede quando si viene dimessi dall’ospedale
Dopo un ricovero, il Servizio sanitario garantisce anche le cure infermieristiche «integrate»
Chi ha bisogno di assistenza infermieristica fuori dal contesto ospedaliero e non è in grado di recarsi in ambulatorio deve pagare di tasca propria l’infermiere a domicilio? Oppure può ricevere a casa (e come) le cure necessarie a carico del Servizio sanitario nazionale?
Nell’ambito dei Livelli essenziali di assistenza (DPCM di aggiornamento dei Lea del 12 gennaio 2017, art. 22), lo Stato garantisce alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, con patologie in atto o esiti delle stesse, prestazioni domiciliari anche infermieristiche in base alle specifiche condizioni di salute della persona.
Di solito è il medico di famiglia che richiede direttamente all’Asl l’attivazione del servizio per il proprio assistito, redigendo gratuitamente il certificato in cui attesta la presenza di patologie e condizioni di non autosufficienza, anche temporanee (per esempio nel periodo post-operatorio), che necessitano di cure a casa. La richiesta può essere fatta anche dal paziente stesso o da un familiare agli uffici competenti dell’Asl.
Prestazioni occasionali
Se la persona non autosufficiente ha bisogno occasionalmente delle prestazioni professionali dell’infermiere, anche ripetute nel tempo, in risposta a un bisogno sanitario di bassa complessità (come prelievi di sangue o terapie iniettive) usufruirà di cure domiciliari di livello base; se, invece, il paziente presenta condizioni di salute più complesse, gli vanno garantiti a domicilio interventi di intensità e complessità in base a un piano assistenziale personalizzato. L’assistenza domiciliare può essere attivata anche per garantire la continuità delle cure tra ospedale e territorio. Per esempio, se un anziano vive da solo e deve rimanere immobile a letto, a casa propria, dopo essersi fratturato il bacino, a chi deve rivolgersi?
«In questo caso è l’ospedale che deve attivare l’assistenza domiciliare infermieristica — spiega Lorena Martini, direttore dell’Unità operativa complessa “Formazione ECM” di Agenas —. La centrale operativa territoriale riceve dal Pronto soccorso o dal reparto di dimissione del paziente la richiesta di attivazione del servizio ADI , cioè Assistenza Domiciliare Integrata (che può essere avviato anche dal medico di famiglia). Il paziente può essere assistito a domicilio, o ricoverato per il periodo necessario presso l’ospedale di comunità, struttura di ricovero a gestione infermieristica, che fa parte della rete di assistenza territoriale e svolge una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero nell’ospedale per acuti».
La riforma
La riforma dell’assistenza territoriale, delineata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), prevede tra l’altro il potenziamento dei servizi di assistenza domiciliare anche attraverso la telemedicina.
La «Casa come primo luogo di cura» è tra gli obiettivi della Missione Salute del Pnrr.
In particolare, va incrementata l’assistenza domiciliare garantendola a ulteriori 800 mila pazienti entro il 2026, fino a prendere in carico almeno il 10 per cento della popolazione di età superiore ai 65 anni, rispetto all’attuale media (tra le diverse regioni) del 6 per cento. Secondo le indicazioni del Regolamento sugli standard per lo sviluppo dell’assistenza domiciliare (DM n. 77/2022) devono essere impiegati 0,9 infermieri ogni mille abitanti over 65enni per le prestazioni rese in assistenza domiciliare.
«In base ai dati ufficiali del ministero della Salute sull’assistenza domiciliare integrata garantita agli over 65enni, le Regioni già vicine a questo obiettivo di presa in carico in ADI sono Emilia Romagna, Toscana, Veneto — sottolinea la dottoressa Martini —. Come ci sono riuscite? Analizzando i modelli organizzativi è emerso che questi infermieri lavorano sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, cioè sono reperibili h 24; in pratica, c’è sempre qualcuno in grado di dare una risposta, evitando che i pazienti si rivolgano al Pronto soccorso». Si tratta di infermieri qualificati per la cura e l’assistenza alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità.
Le differenze
«L’infermiere di famiglia e comunità ha un ruolo diverso rispetto all’infermiere delle cure domiciliari, anche se in tante realtà le due figure professionali si sovrappongono oppure viene chiamato “infermiere di famiglia” quel professionista che effettua prestazioni a domicilio — spiega Nicola Draoli, consigliere del comitato centrale di Fnopi, Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche —. Che esegua o meno trattamenti domiciliari, in ogni caso l’IFeC deve necessariamente svolgere interventi di natura preventiva ed educativa sul territorio; in pratica, la sanità di attesa deve essere minoritaria rispetto a quella di iniziativa, altrimenti si crea una sorta di ospedale fuori dall’ospedale».
Aggiunge la dottoressa Martini: «Il Decreto 77/2022 prevede che l’infermiere di famiglia e comunità svolga in qualche modo anche l’assistenza domiciliare, soprattutto per le attività di prevenzione e assistenza.
In particolare, è previsto che tra i sette e gli undici infermieri lavorino dentro le Case di comunità, che due-tre infermieri siano impiegati per le attività ambulatoriali delle Case di comunità, unodue infermieri svolgano attività di triage e valutazione dei bisogni di salute, tre-cinque infermieri siano impiegati per l’assistenza domiciliare per attività prevalentemente prevenzione e teleassistenza.
«L’IFeC non è l’infermiere che si occupa dell’assistenza domiciliare di base, che rimane — ribadisce la dirigente di Agenas —. Per l’ADI, infatti, sono previste risorse aggiuntive, rispetto a quelle già esistenti, per garantire i diversi tipi di intensità dell’assistenza domiciliare».