«LA GLOBALIZZAZIONE NON MUORE, CAMBIA»
RODRIK: CON PIÙ EQUILIBRIO È UNA VIA SANA
Davanti a un ritorno di misure protezionistiche, molti sostengono che la globalizzazione sia finita o in rapido declino. Dani Rodrik, 65 anni, economista turco e docente alla Kennedy School of Government dell’università di Harvard, non la pensa così. «Non credo che la globalizzazione sia morta e non prevedo che morirà presto. La sua morte assomiglierebbe a quella avvenuta negli anni ‘30, quando i Paesi hanno eretto barriere commerciali molto alte e il volume del commercio globale è crollato. Oggi non si prospetta nulla di simile» sostiene. Ma sta prendendo forma «un nuovo tipo di globalizzazione». Spiega: «Il gold standard, all’incirca tra il 1880 e il 1914, era un tipo di globalizzazione; l’era di Bretton Woods, tra il 1945 e la fine degli anni Settanta, era un altro tipo; e quella che ho chiamato “iper-globalizzazione” (all’incirca dai primi anni Novanta) era un terzo tipo. La differenza principale tra Bretton Woods e l’iperglobalizzazione è che sotto Bretton Woods l’economia mondiale era vista come al servizio dell’economia nazionale. Quando il commercio internazionale e i flussi di capitale creavano difficoltà alla gestione macroeconomica interna, ai mercati del lavoro o alla coesione sociale, i Paesi erano liberi (e ci si aspettava che lo facessero) di controllare i flussi di capitale o di innalzare barriere commerciali». Invece, «con l’iperglobalizzazione, il rapporto tra economia nazionale ed economia mondiale è stato
Sguardo al passato Non bisogna rifare gli stessi errori commessi quando si è innescata l’iper globalizzazione
stravolto: erano l’economia e la società nazionali a doversi adattare ai requisiti del libero flusso di finanza, capitali e beni. Ciò ha creato tensioni, con un aumento delle disuguaglianze e un senso di perdita di controllo da parte di ampi segmenti della società, che hanno portato un contraccolpo contro la globalizzazione».
Perciò Rodrik crede che a essere morto sia il modello più recente di iper-globalizzazione. «Sia gli Stati Uniti che, in misura minore, l’europa stanno dando priorità alle proprie agende interne, sociali e climatiche», afferma. E questo «a volte assomiglia al protezionismo. Ma il raggiungimento di un migliore equilibrio tra le economie nazionali e globali non è necessariamente la fine della globalizzazione. Al contrario, potrebbe portare a un’economia mondiale sana».
Che cosa dobbiamo aspettarci? «Penso che ci siano due visioni in competizione tra loro. Una si concentra sull’equità interna, sulla coesione sociale e sulla transizione verde. La seconda è geopolitica e si concentra sulla competizione dell’occidente con la Cina. Dare priorità a obiettivi domestici legittimi come l’equità e l’ambiente non è dannoso per la globalizzazione. Mi preoccupa di più l’imperativo geopolitico, in particolare quello perseguito dagli Stati Uniti. A Washington è forte l’opinione che la Cina rappresenti una minaccia significativa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e che la sua ascesa come potenza economica e tecnologica debba essere fermata. L’amministrazione Biden nega che questo sia il suo obiettivo, ma alcune delle sue politiche (come i controlli sulle esportazioni e sugli investimenti in semiconduttori avanzati) si avvicinano pericolosamente a quella che alcuni osservatori hanno definito guerra economica alla Cina. Se la competizione geopolitica mette in secondo piano tutto il resto, l’economia mondiale diventa un gioco a somma zero e ci sarebbero seri rischi sia per la prosperità globale che per la pace».
Con l’iper-globalizzazione «abbiamo commesso l’errore di consegnare le chiavi dell’economia mondiale a società e finanzieri globali», valuta Rodrik. La sua speranza è che «oggi non commetteremo un errore simile consegnando le chiavi dell’economia globale agli istituti di sicurezza nazionale delle grandi potenze».
L’economista aveva già messo in guardia contro i rischi nel libro del 1997 Has globalization gone too far?. Ripensandoci ora riflette: «Studi empirici dimostrano che l’ascesa della destra populista autoritaria non sarebbe stata così significativa se avessimo perseguito un approccio più equilibrato alla globalizzazione».
Geopolitica
Negli Usa è forte la percezione che la Cina sia una minaccia. E questo preoccupa molti