L’eterno ritorno delle tentazioni protezionistiche in Sudamerica
La pandemia, la guerra commerciale di Trump contro la Cina e l’invasione russa dell’ucraina hanno portato le nazioni a chiudersi sempre più rispetto all’esterno. Tuttavia, più che mettere in discussione la globalizzazione, si potrebbe osservare lo sviluppo dell’interconnessione delle economie mondiali da un’altra angolazione.
Magari quella dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo (o di quelli di più recente capitalizzazione), che hanno molto da guadagnarci dall’apertura dei loro mercati, ma anche da perderci. Pensiamo alla traiettoria che stanno seguendo ad esempio alcune economie del Centro e del Sud America: grandi ricchezze naturali e bassi livelli salariali non hanno fatto che attirare, in cicli di diverse ondate, gli investimenti stranieri (il che è certamente un bene se i capitali scarseggiano) i quali tuttavia non hanno quasi mai contribuito a rendere più fertile e competitivo l’ecosistema locale. Più che globalizzazione, a quelle latitudini l’internazionalizzazione dei mercati è stata per lungo, troppo lungo tempo vissuta come economia di rapina. Inevitabile, dunque, che la risposta, il riflesso pavloviano, della maggior parte dei governi locali sia quella della chiusura. Il Venezuela ne è forse l’esempio portato alle conseguenze più estreme e il nuovo corso della Colombia di Gustavo Petro quello più “sostenibile”, ma la — relativa — resistenza alle pressioni esterne è la strategia che, almeno da una decina di anni, quasi tutti i membri del Mercosur hanno deciso di adottare. Prima contro gli yankee, oggi contro l’invasione di prodotti cinesi.
Il protezionismo, insomma, sembra tornare di moda, e ne parleranno approfonditamente, in due diversi momenti, domenica 4 giugno Douglas Irwin (alle 15.00, Collegio Carlo Alberto Common room) e Laura Alfaro (alle 15 Biblioteca Nazionale Universitaria, Auditorium Vivaldi), il primo concentrandosi sulle economie avanzate e la seconda, economista attualmente Warren Alpert Professor of Business Administration presso la Harvard Business School, dove sta concentrando i suoi studi su mercati dei capitali, investimenti diretti esteri, globalizzazione e finanza internazionale, guardando appunto più ai Paesi emergenti.