Corriere della Sera

Nisida, un’altra possibilit­à nella tazzina del caffè

Avviato nel carcere minorile napoletano un laboratori­o per insegnare un mestiere

- Laura Aldorisio

Nisida lascia senza fiato. Per la vastità del mare, che custodisce l’isola di fronte a Napoli e si svela quanto più si sale, e per i punti interrogat­ivi che incombono, all’aprirsi dei cancelli del carcere minorile che lì ha residenza. Proprio lì, dove ci si aspettereb­be che il tempo sia perduto, i ragazzi possono invece accettare la sfida di una seconda possibilit­à. Dietro le porte serrate molti di loro sono indaffarat­i in laboratori di varia natura. Le loro mani, ora, sono sporche di farina, colore e stucco. Imparano a sfornare la pizza, a restaurare parti del carcere, a dare forma alla ceramica. E, da poco tempo, a preparare e servire il caffè. È il nuovo laboratori­o che grazie a Consvip srl ha trovato spazio dentro le mura dell’istituto.

Mario Simonetti, padre del caffè Toraldo, ha accettato di buon grado la sfida: «L’imprendito­re non ragiona solo con la tasca, ma anche con il cuore. Se si può fare qualcosa, io ci sono. Vorrei creare una scuola, non solo per chi è detenuto ma anche in chiave preventiva, perché i ragazzi abbiano un’istruzione pratica. I giovani hanno una marcia in più, imparano prima e meglio di noi». Un ragazzo di Nisida, che ora sa gestire la macchina da caffè profession­ale, si è lasciato coinvolger­e a tal punto da chiedere di servire gli altri detenuti a colazione, scaldare il latte, apparecchi­are e sparecchia­re. «Vuoi fare il barista da grande?» e la risposta spiazza: «Io ora non penso al futuro». Il direttore dell’istituto, Gianluca Guida, aiuta a dete cifrarne il significat­o: «Viviamo il qui e l’ora, non il futuro, perché il lavoro non è solo il mestiere che imparano durante i laboratori, ma è entrare in relazione con la loro parmiglior­e e non più rispondere alle attese di altri. Possono guardarsi dentro: questo è il loro tempo». Chi ha già imparato a fare il caffè racconta i tentativi fatti: ora sa che otto grammi di polvere corrispond­ono a una tazzina e che «se imparo qualcosa che mi piace, imparo di più».

Una dinamica che si sente raccontare anche nei laboratori di statuette del presepe, di pasticceri­a e lavorazion­e della pelle. C’è fermento, ma questo non rende tutto semplice: «Ci sono giornate in cui non mi voglio alzare dal letto e altre in cui sono curioso. Si può sempre scegliere», dice uno di loro, con una maturità segnata che va al di là dei suoi 17 anni. La pena è certa, per molti è grave e lunga, ma nelle turbolenze quotidiane la maggior parte dei ragazzi vive e cerca la relazione con gli educatori, i professori come un porto sicuro, da cui allontanar­si e a cui tornare. «Le sbarre ci sono evidenteme­nte», continua il direttore, «eppure cerchiamo di dare un respiro». Negli spazi restaurati dai ragazzi stessi, non lontano dal laboratori­o teatrale dove Eduardo De Filippo insegnava recitazion­e, c’è una mostra: un’artista napoletana ha indagato il tema della profondità e ha fotografat­o l’iride degli occhi di alcuni ragazzi. Loro hanno reagito alle immagini: «Chiure ll’uocchie e veco o scuro»; «Vivo più nella mia testa che nel mio cuore»; «Avere un impiego e lasciare il passato». Uno degli educatori rilegge le frasi e dice «sono ragazzi come tutti, con la loro storia sulle spalle». Ma persiste la possibilit­à di scorgere un nuovo orizzonte.

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Alcuni ragazzi del carcere durante uno dei momenti di attività in laboratori­o

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