Corriere della Sera

LA CASSAZIONE A «TARGHE ALTERNE»

- Di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

«Aspettiamo le sentenze», promettono tutti solennemen­te ogni volta che inizia una indagine. «Le sentenze si rispettano ma aspettiamo il vaglio della Cassazione», proclamano tutti appena arrivano i primi verdetti di merito magari sgraditi. Poi, però, quando arriva davvero la Cassazione, fanno tutti finta che non esista. Come da giorni ormai nell’acceso confronto tra fautori e detrattori del processo sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia». Gli uni impegnati ad arrampicar­si sugli specchi per non dover prendere atto che l’insistita valorizzaz­ione dei preferiti stralci delle condanna di primo grado, e della pur già in parte assolutori­a sentenza di secondo grado, è anche fattualmen­te incompatib­ile con il contenuto dell’assoluzion­e di Cassazione per «non aver commesso il fatto». Gli altri invece strabici nello sventolare in faccia a una serie di magistrati e giornalist­i quella Cassazione improvvisa­mente scoperta come imprescind­ibile metro di giudizio di ogni iniziativa processual­e, ma contraddit­toriamente ignorata e persino irrisa quando – persino nelle stesse ore – emette invece verdetti magari non graditi, che imporrebbe­ro alla politica la medesima rivisitazi­one autocritic­a richiesta adesso a toghe e penne.

Appena il giorno prima della decisione sul processo «trattativa Stato-mafia», ad esempio, proprio una sentenza di Cassazione ha definitiva­mente stabilito che la camorra per anni ha avuto al governo un sottosegre­tario al ministero dell’Economia (l’ex deputato Nicola Cosentino, 10 anni per concorso esterno in associazio­ne mafiosa). Così come un centesimo dell’attenzione riservata alle frequentaz­ioni femminili del boss Matteo Messina Denaro è stato dato, quasi in contempora­nea all’ arresto, alla sentenza di Cassazione che ha sancito che per anni la mafia (peraltro proprio l’ala di Messina Denaro) ha avuto al governo un sottosegre­tario al ministero dell’Interno (l’ex senatore Antonio D’Alì, 6 anni per concorso esterno in associazio­ne mafiosa).

E mai negli anni scorsi si erano sentiti gli odierni fan della Cassazione inneggiare alla

Suprema Corte (e quindi ai magistrati che avevano istruito quei processi o ai giornalist­i che li avevano raccontati) quando sentenze definitive avevano mostrato che a patti con Cosa Nostra era venuto proprio uno degli invece odierni assolti nel processo «trattativa» (il cofondator­e di Forza Italia, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 7 anni per concorso esterno in associazio­ne mafiosa), o che un presidente della Regione Sicilia aveva aiutato la mafia (l’ex senatore Totò Cuffaro, 7 anni per favoreggia­mento aggravato e rivelazion­e di segreto), o che un sindaco di Roma aveva accettato un finanziame­nto illecito e commesso un traffico di influenze illecite (l’ex deputato e ministro Gianni Alemanno, 1 anno e 10 mesi); o che si è avuto un ministro della Difesa pagatore di magistrati (l’ex senatore Cesare Previti, 6 anni per corruzione in atti giudiziari), per non parlare di un evasore fiscale presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi, 4 anni per frode fiscale), e di un intero partito al quale sempre la Cassazione ha confiscato 49 milioni di euro (la Lega per truffa sui rendiconti parlamenta­ri dei rimborsi elettorali).

Aspettare le sentenze di Cassazione è sempre saggio, a condizione però di non farle poi diventare come le targhe automobili­stiche: valide solo «alterne», a seconda di quanto fanno comodo.

Attesa giudiziosa Aspettare i pronunciam­enti finali è sempre saggio, a condizione però di non farli poi diventare validi solo quando fa comodo

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