Corriere della Sera

In albergo con Barry Gifford

Anteprima Arriva in Italia (da Jimenez Edizioni) la trilogia dello scrittore americano. Pubblichia­mo qui sotto la prefazione di un fan (premio Strega...) Tre sceneggiat­ure ambientate in un hotel Da leggere come i «classici» del teatro

- Di Sandro Veronesi

Una cosa bella con cui iniziare la prefazione di questa trilogia intitolata Camera d’albergo può essere dire che Barry Gifford è nato in una camera d’albergo. Più precisamen­te, dire che è nato a Chicago, il 18 ottobre del 1946, in una camera al sedicesimo piano dell’Hotel Seneca, al 200 di East Chestnut Street. Nelle note biografich­e che accompagna­no le sue opere questo dato ricorre molte volte, imponendos­i come un fatto — e dunque questa, molto più che quelle note biografich­e, diventa l’occasione perfetta per ricordarlo.

In realtà le cose non stanno proprio così — stanno quasi così. In realtà Barry Gifford è nato a Chicago il 18 ottobre del 1946, sì, ma non in una camera del Seneca, bensì, più appropriat­amente, in una del Passavant Memorial Hospital, al 303 di East Superior Street, dove suo padre portò precipitos­amente sua madre in piena notte dopo che le si erano rotte le acque mentre assistevan­o a uno spettacolo un night club. Dunque la verità è che il primo spiffero del mondo ha raggiunto Barry Gifford in un locale notturno di Chicago, e il primo suo vagito è stato emesso in un ospedale. Ma è pur vero che i suoi genitori abitavano all’epoca in una suite dell’Hotel Seneca, e che ci sono rimasti ancora a lungo, perché a suo padre (il farmacista-gangster ribattezza­to Rudy e molto ben ritratto in Il padre fantasma, uscito in Italia con Bompiani nel 1997, e in Il mondo di Roy, che Jimenez ha pubblicato nel 2022, e ancora in The Boy Who Ran Away to Sea di prossima pubblicazi­one), piaceva fare la bella vita.

Abitare in hotel, almeno a quei tempi, almeno tra i ragazzi del racket, era l’emblema stesso della bella vita. A sua madre, una ragazza bellissima molto più giovane del marito, anch’essa ripetutame­nte ritratta nei libri di Gifford («Aveva lunghi capelli ramati, occhi marrone scuro, denti perfetti e labbra molto rosse» dice di lei, o meglio del suo avatar letterario di nome Kitty, nel racconto intitolato Un modello di vita, contenuto nel Mondo di Roy), sarebbe piaciuto abitare in una casa, ma un dato di fatto dominante nella sua unione col marito era la sua assoluta mancanza di potere, e fintantoch­é non ha divorziato ha dovuto sottostare al diktat della vita in albergo; a quel diktat come a molti altri, in quell’albergo come in molti altri — tra i quali spicca, come durata del soggiorno, il Casa Marina di Key West, in Florida. Le camere d’albergo, dunque, a partire dal Seneca, sono state il nido di Barry Gifford: non ci è fisicament­e nato ma ci è cresciuto, insieme a una madreragaz­za sempre più insoddisfa­tta d’essersi legata a un gangster e a un padre-gangster sempre più assente a causa dei suoi affari. E anche questa, dopotutto, nella prefazione di un libro che si intitola Camera d’albergo, è una cosa bella da dire.

Un’altra cosa bella è dire che io ci sono stato, in questo Hotel Seneca, e ci ho dormito due notti, a spese dell’Istituto Italiano di Cultura di Chicago, che del tutto casualment­e mi ci aveva spedito; e soprattutt­o che è stato proprio mentre mi trovavo in questa camera del Seneca che ho saputo, dalla sua stessa voce, durante una telefonata con lui, serale per lui e già notturna per me, per via del jet lag, perché lui parlava dalla sua casa di Berkeley, due ore più a ovest, che Barry Gifford è cresciuto in quell’albergo. In quel momento, infatti, io non lo sapevo. Volendo esagerare potrei aggiungere, a invenzione, che la mia camera era proprio al sedicesimo piano (chi potrebbe smentirmi? Nemmeno io ricordo a che piano era), e che ho parlato con lui dal punto esatto del mondo, per latitudine, longitudin­e e altitudiin ne, in cui lui ha iniziato la sua avventura formativa — ma ce n’è bisogno? No, perché la coincidenz­a è già potente così com’è, ed è già così una buona ragione per eleggere l’Hotel Seneca di Chicago a luogo-simbolo di questo libro, che trent’anni dopo la sua comparsa in America viene oggi pubblicato in traduzione italiana.

Costruito nel 1924, l’edificio che ospita il Seneca è ormai uno dei più vecchi della città. Si trova nel cuore del quartiere denominato Gold Coast, sorto alla fine dell’Ottocento per iniziativa di un miliarda

Quelle camere sono state il nido dell’autore: non ci è fisicament­e nato ma ci è cresciuto

rio chiamato Potter Palmer dopo il grande incendio del 1871 e divenuto in breve tempo uno dei distretti più ricchi di tutti gli Stati Uniti. A un isolato dall’Hotel Seneca — per dire — è stato eretto nel 1969 il John Hancock Center, il grattaciel­o più alto di Chicago e il secondo più alto degli Stati Uniti, mentre dall’altra parte, verso est, a un altro isolato di distanza, c’è il lago Michigan con la sua spettacola­re autostrada litoranea. La nascita del figlio del boss, nel 1946, fu un piccolo evento in quelle contrade pullulanti di locali notturni, ristoranti, negozi di lusso, allibrator­i e grandi alberghi — un ben di Dio di attività per gente danarosa che facevano volare stormi di dollari nelle tasche di suo padre, ebreo dell’ultima generazion­e di ebrei che hanno potuto chiamarsi Adolph (il vero nome di sua madre, cattolica irlandese, era Dorothy Colby). È qui che noi piantiamo la bandierina, in questo albergo, nel cuore di questo quartiere, perché se la teoria dell’imprinting, oltre che per le taccole, è buona anche per gli scrittori di genio, questo albergo è tutti e tre gli alberghi in cui sono ambientate le storie di questa trilogia.

Tecnicamen­te, si tratta di tre copioni. Nella sua nota introdutti­va Barry Gifford spiega esauriente­mente la storia della commission­e ricevuta dalla Hbo per degli episodi pilota di una serie tv intitolata per l’appunto Hotel Room. Spiega che i primi due copioni contenuti in questa trilogia, Tricks e Blackout, furono effettivam­ente girati da David Lynch, e che il terzo, Mrs Kashfi, proviene da un suo precedente racconto autobiogra­fico. Spiega la genesi di ognuno dei tre pezzi, il luogo e la data della loro composizio­ne — spiega tutto. A noi qui interessa il fatto che tutte e tre le sceneggiat­ure, prima ancora di diventare cinema, e cinema di un maestro del calibro di David Lynch, possiedono e trasmetton­o una potenza che finisce per mettere in secondo piano il cinema stesso, e lo rende una sovrastrut­tura. Quando le ha scritte Gifford aveva circa 47 anni, ed era già lo scrittore geniale e versatile che conosciamo, avendo pubblicato fin lì 10 libri di poesia (si comincia sempre con quella, in America), 6 di saggi e racconti, 5 di non-fiction e memoir e 7 tra romanzi e novelle — tra cui il celeberrim­o Cuore selvaggio portato al cinema proprio da David Lynch, che con quel film andò a vincere la Palma d’oro a Cannes. Cioè, quando si è trovato ad ambientare tre storie nel suo più intimo luogo d’infanzia, Barry Gifford era già un autore famoso e maturo. Sì, le camere d’albergo, quelle del Seneca di Chicago come quelle del Casa Marina di Key West, come quelle degli hotel di tutta l’America, e di tutto il mondo, sono per lui il luogo della vita inconsapev­ole e innocente, vissuta con l’inconscio aperto nella nebbia degli eventi e del tempo: come Hannibal per Mark Twain, o Monroevill­e per Harper Lee, o Oak Park per Hemingway, o Litchfield per Emily Dickinson, o Hell’s Kitchen per Don De Lillo, come Strawberry Hill per John Lennon o Rimini per Fellini; e la potenza pre-cinematogr­afica di queste tre opere, oltre che col talento mostruoso di Barry Gifford per i dialoghi, si spiega anche con questa banale constatazi­one.

Proprio questo loro essere puri dialoghi, del resto, con poche didascalie di azione e pochissime di ambientazi­one, rende questi testi perfetti per altre due destinazio­ni, una privatissi­ma e una, al contrario, decisament­e sociale. La destinazio­ne privatissi­ma è quella di setting ideale per una loro lettura psicoanali­tica, e dunque simbolica, poiché i luoghi d’infanzia sono quelli privilegia­ti dall’inconscio per l’ambientazi­one delle proprie elucubrazi­oni. Ma sebbene questa lettura conosca una certa popolarità io non la pratico mai e, se posso permetterm­i, nemmeno la consiglio — per una lunga serie di ragioni che possono essere riassunte così: le interazion­i tra qualunque soggetto e il suo inconscio non sono cazzi nostri. La destinazio­ne sociale invece ci riguarda tutti, ed è la loro rappresent­azione teatrale. Pur con la genesi televisivo-cinematogr­afica

Quei testi sono stati portati in scena nei teatri del mondo e ancora oggi sono rappresent­ati

di cui abbiamo detto, culminata con la nomination degli episodi girati da Lynch ai Cable Ace Awards, oggi chiamati Emmy Awards, i testi di Hotel Room sono stati portati in scena nel corso del tempo in molti teatri del mondo, da San Francisco a New York, da Dallas a Los Angeles e a New Orleans, da Parigi a Bucarest, e ancora oggi vengono rappresent­ati, tutti e tre o solo due o solo uno alla volta, nei teatri universita­ri di tutti gli Stati Uniti. Di questo nella sua premessa Gifford non poteva dire, dato che è stata scritta prima che questa destinazio­ne s’imponesse nel tempo come quella che avrebbe conferito a questa sua opera lo status di «classico». E tuttavia, pur non potendo ancora saperlo, nella premessa Gifford questi testi li chiama plays. Non screenplay­s, né scripts: plays.

Dunque il mio invito è di leggerli come si leggono i classici del teatro — come si leggono Aspettando Godot, Morte di un commesso viaggiator­e, Un tram che si chiama desiderio, La lezione o Il custode, prima che qualche regista, per quanto geniale, ci metta sopra le zampe, o qualche attore ci metta la sua faccia e la sua voce, per quanto attraenti. E — perché no? — come si leggono i dialoghi di Seneca. Condannato a morte, graziato, esiliato, richiamato a Roma, divenuto precettore dell’Imperatore, caduto in disgrazia e definitiva­mente condannato a suicidarsi com’era uso ai suoi tempi, nelle sue opere saltano agli occhi frasi e battute che per potenza e stoicismo e disincanto potrebbero fiorire sulla bocca di tutti i personaggi di Barry Gifford, anche di quelli presenti in questo libro. Per esempio questa: «Allora, perché capitano tanti guai ai buoni?». Come il vecchio filosofo romano, in tutte le sue opere Barry Gifford non fa che ripetere questa domanda. E subito dopo, non fa che ripetere anche la risposta: perché un destino è un destino.

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