Reinventare «Che tempo che fa»: un’impresa impossibile
Credo di meritarmi il diritto di difendere Fabio Fazio perché, nel corso degli anni, l’ho più volte criticato. Non lui, ma il suo modo di fare tv: a volte troppo ossequioso e melenso nel porre le domande, a volte prigioniero di quel perbenismo culturale che piace molto alla sinistra sentimentaloide e corretta, a volte un po’ marzullesco. Però cacciarlo è un errore che solo gli incapaci e gli scarsi possono commettere.
«Che tempo che fa» è un programma che fa ascolti e produce profitti, e già questa potrebbe essere una buona ragione su cui riflettere. Ma non basta. Il merito più grande di «Che tempo che fa» è di aver creato uno spazio che prima non c’era — un’offerta che è il distillato delle sue precedenti esperienze — e di aver dato a quello spazio una temporalità, cioè la ritualità su cui si fonda buona parte dell’efficacia della comunicazione televisiva. Basta scorgere l’elenco degli ospiti che hanno partecipato alla trasmissione, basta ripensare alla serata con Liliana Segre al Binario 21, basta ricordare l’intervista con Papa Francesco. Per questo, tornando all’errore di cui sopra, «Che tempo che fa» non può essere sostituito con un altro conduttore: reinventare quello spazio sarà un’impresa pressoché impossibile.
Nella ritualità è anche insita l’idea di comunità: se lavori per la Rai non dovresti dimenticare il concetto di «servizio pubblico». Durante gli anni della pandemia, tanto per fare un esempio, l’appuntamento della domenica sera è stato fondamentale per ricevere informazioni, per trovare conforto nelle parole di illustri clinici, per affrontare una situazione angosciante. Vogliamo fare il confronto con altre trasmissioni Rai improntate alla contrapposizione, se non alla gazzarra?
In questa vicenda il ruolo più ambiguo è stato quello dell’ex ad Carlo Fuortes. Avrebbe avuto tutto il tempo per rinnovare il contratto di Fazio. Perché ha tergiversato fino alla scadenza? Sperava di ottenere qualcosa in cambio? Un episodio come questo porta acqua al mulino di chi vorrebbe privatizzare la Rai: il sogno di un ente indipendente è ormai svanito da tempo, tanto vale che sia il mercato a decidere chi merita di andare in onda e chi no.