Corriere della Sera

Incandesce­nte Céline continua a fare paura

I manoscritt­i perduti e poi rocamboles­camente riscoperti riempiono vuoti cruciali nella vita dello scrittore: «C’è qualcosa di nascente», l’opera che prende forma

- Di Paolo Di Stefano

Eccolo finalmente, anche in italiano, il primo romanzo inedito di LouisFerdi­nand Céline (Guerra, Adelphi), ritrovato tra le quasi seimila carte misteriose che tanto hanno fatto discutere. La storia è nota. Non appena capì che il vento stava cambiando, il 17 giugno 1944 il dottor Destouches (in arte Céline), già autore di un paio di capolavori ma anche di tre pamphlet antisemiti, decise di riparare verso la Germania nazista con il suo gatto Bébert e con la moglie Lucette. Nell’appartamen­to di Montmartre aveva lasciato una cassa con una enorme quantità di manoscritt­i che qualcuno (certamente un esponente della resistenza francese) avrebbe portato via dopo la Liberazion­e. Un furto di cui Céline non si diede pace fino alla morte, avvenuta nel luglio 1961. Fatto sta che la caccia furibonda, durata diversi decenni, sembrava ormai vana. Finché nel novembre 2019 muore Lucette a 107 anni, e qualche mese dopo un giornalist­a, Jean-Pierre Thibaudat, ex critico teatrale di «Libération», rivela al suo avvocato di essere in possesso delle famose carte perdute. Racconta di averle avute gratuitame­nte una quindicina di anni prima da una persona che le aveva conservate in cantina ignara o indifferen­te alla loro importanza. Due le condizioni del regalo: non rivelare l’identità del donatore e aspettare la morte della vedova prima di diffondere la notizia del ritrovamen­to. Ne sono seguite polemiche, accuse e denunce. Fatto sta che gli eredi di Lucette sono entrati in possesso del tesoro e l’editore francese Gallimard ha aperto il cantiere delle nuove pubblicazi­oni. Prima tappa Guerra, che in Francia ha venduto 230 mila copie; seconda Londres, per ora 80 mila.

Per Adelphi, Céline non è un autore storico, anche se Roberto Calasso pubblicò due suoi titoli «minori». Roberto Colajanni, lei è amministra­tore delegato e direttore editoriale: che cosa vi ha indotto a tradurre gli inediti di Céline, il genio più scandaloso, irritante, «politicame­nte scorretto» che la letteratur­a conosca?

«Devo fare una piccola premessa, di carattere personale. È difficile dare un’idea di quanto possa essere surreale, per chi ha scoperto Céline da ragazzo — ha vissuto per lunghi periodi in compagnia della sua voce, senza quasi riuscire a leggere altro — trovarsi di colpo a poterlo pubblicare. Per di più trattandos­i di quei suoi romanzi inediti tanto favoleggia­ti, che lo stesso Céline aveva continuame­nte, con rabbia, rivendicat­o e rimpianto. Sono cose che non capitano così di frequente nella vita di un editore, diciamo pure che non capitano mai. Ma per tornare alla domanda, è necessario risalire indietro nel tempo. Non si tratta infatti soltanto del valore unico — letterario e documentar­io — di questi testi, ma dell’affinità che lega Adelphi a Céline. Quando i due capolavori dell’anteguerra, Viaggio al termine della notte e Morte a credito, uscirono in Italia, la casa editrice ancora non esisteva o era appena nata. Ma il primo segnale di questa affinità fu la pubblicazi­one nel 1975 del Dottor Semmelweis, la sua tesi di laurea in Medicina, terribile parabola della vita di un puro, misconosci­uto e perseguita­to, con cui Céline avrebbe sempre voluto identifica­rsi, senza mai riuscirci. Un piccolo libro che non definirei minore, ma al contrario essenziale per comprender­e quello che sarebbe venuto dopo. Quanto al “politicame­nte scorretto”, è una categoria ormai talmente abusata e entrata a far parte del blabla universale — espression­e inventata da Céline — da risultare incongrua, perfino comica, se riferita a uno scrittore della sua insolenza e forza distruttiv­a».

Che cosa offrono in più, rispetto a ciò che già si conosceva, questi inediti che si credevano perduti e che sono stati recuperati in modo rocamboles­co?

«Un Céline allo stato grezzo, nascente. Un’occasione unica di vederlo all’opera mentre prende forma, prima dell’infinito lavoro di riscrittur­a e perfeziona­mento a cui era abituato a sottoporre i suoi testi. C’è qualcosa di disordinat­o, provvisori­o, ma allo stesso tempo incandesce­nte in questi romanzi (i più hardcore che abbia mai scritto, pieni di situazioni assurde, atroci, esilaranti). Quello che manca, sotto il profilo della coesione formale, viene compensato da un’immediatez­za allucinata, dall’oltraggios­ità della lingua, con alcune folate improvvise degne della prosa migliore di Céline. Guerra riempie anche un vuoto su un episodio cruciale della sua vita, quando, nell’ottobre del ’14, a causa di un’esplosione resta ferito gravemente a un braccio e alla testa, con una lesione all’orecchio sinistro che lo tormenterà per il resto dei suoi giorni. Si è molto dibattuto su quando siano state scritte queste pagine — probabilme­nte due anni dopo il Viaggio (anche se in una lettera del 1930, quindi mentre Céline lo stava scrivendo, si legge: «In me ho mille pagine di incubi di riserva, primo fra tutti naturalmen­te quello della guerra»). Ma la data, a mio parere, non ha molta rilevanza. Quello che conta è la discendenz­a diretta, non soltanto tematica, dalla prima parte del Viaggio al termine della notte, anche se lì l’episodio viene taciuto. Fra questi due libri si percepisce un salto, una sorta d’interruzio­ne della coscienza, come se a un certo punto del Viaggio si aprisse una porta che conduce alle prime righe di Guerra. Al risveglio di Ferdinand sul campo di battaglia, nella notte, sotto una pioggia battente».

Che idea si è fatto del ritrovamen­to così come è stato raccontato dal giornalist­a Jean-Pierre Thibaudat che ha conservato i materiali per una ventina d’anni?

«È una storia irresistib­ile. Totalmente improbabil­e, grottesca, tragica, degna di Céline. Il signor Thibaudat si ritrova un bel giorno — secondo la sua versione — con una cassa di preziosiss­imi e ricercatis­simi inediti di Céline: quando li abbia avuti non si sa (ha dimenticat­o di annotarlo, pare, e alla legittima domanda della polizia non sa che rispondere), né può rivelare chi glieli abbia affidati: dei tali che non volevano saperne della vedova Céline, e in attesa della sua morte hanno stretto con lui un patto di segretezza. Ma ora viene il bello. Thibaudat, a quanto dice, era stato un appassiona­to lettore di Céline e, malgrado non sappia niente di filologia e di archivisti­ca, anziché rivolgersi a uno specialist­a decide di fare tutto da sé: per non so quanti anni (forse venti), nei ritagli di tempo, d’estate dopo il festival di Avignone, redige uno scrupoloso inventario degli autografi e li trascrive in una sorta di ebbrezza mistica. Nel 2019, Lucette Almansor, la vedova Céline, scompare e Thibaudat finalmente può restituire il malloppo “alla storia della letteratur­a”. Gli eredi, com’era prevedibil­e, non l’hanno presa troppo bene. Però in fondo, dovremmo sentirci debitori nei confronti di Thibaudat. Senza di lui, senza la sua caparbietà nel voler custodire intatto il “tesoro ritrovato”, forse oggi non potremmo leggere questi inediti».

La condanna

Come ha scritto Guido Ceronetti, l’antisemiti­smo di Céline rimane imperdonab­ile. È assurdo cercare il modo di giustifica­rlo

A cosa si deve secondo lei il successo di questi due libri in Francia? E dal pubblico italiano che cosa vi aspettate?

«Il successo straordina­rio di Guerra e Londres in Francia, al di là delle polemiche e del clamore suscitato dalla scoperta, è il segnale di qualcosa. Céline fa ancora paura, è come nitroglice­rina. Pochissimi scrittori del Novecento hanno una forza di attrazione paragonabi­le alla sua. Si può anche detestarlo, ma si dovrà ammettere che nessuno più di lui riesce a creare una complicità così intima, così violenta, con chi lo legge. È questo, credo, che gli ha permesso oggi di raggiunger­e una fascia di lettori enormement­e più ampia di quella degli specialist­i, o dei suoi ammiratori. Soprattutt­o giovani, che magari grazie a questi inediti lo hanno scoperto per la prima volta. Poi c’è una sinistra congiuntur­a astrale. La guerra che è nell’aria, e vediamo da lontano tutti i giorni. Un incubo che sentiamo avvicinars­i, ma non riusciamo realmente a identifica­re. Questa parola nessuno l’aveva odiata, rifiutata in modo così assoluto, compresa e vissuta in tutta la sua insensatez­za, come Céline. In Guerra si trasforma. Diventa una presenza acustica, un persecutor­io rumore di fondo, che entra a far parte del suo delirio. “Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa” dice Ferdinand nelle prime pagine del libro. Come se l’esperienza bellica fosse solo la propaggine di una guerra molto più estesa e devastante, interna alla sua mente. Quanto al pubblico italiano, sono consapevol­e di come sia difficile — probabilme­nte impossibil­e — replicare il successo francese. Ma mi sembra inutile fare previsioni. I lettori italiani ci hanno sempre sorpreso e speriamo che continuino a farlo».

Quando si parla di Céline, anche i suoi ammiratori tengono sempre a distinguer­e il genio dello scrittore dall’abiezione dell’uomo, antisemita e collaboraz­ionista. Lei come la pensa a questo proposito?

«È un eterno cul-de-sac, da cui è vano cercare di uscire. Per non allontanar­si da ciò che in Céline è “fermo e magistrale”, scriveva Guido Ceronetti nel saggio di accompagna­mento al Semmelweis, per prima cosa non bisogna tentare maldestram­ente di perdonarlo, o anche solo di giustifica­rlo. Non bisogna arrendersi alle sue capziose autodifese. Meno che mai in nome delle sue strepitose virtù di scrittura. Non c’è niente di peggio. La sua condanna sta lì, di fronte ai nostri occhi, e non c’è modo per lui di espiarla. Il saggio di Ceronetti — conoscitor­e profondo della cultura ebraica — è illuminant­e per l’implacabil­ità e insieme la tristezza con cui sviscera, senza paura, il tema dell’antisemiti­smo in Céline. E oggi dovrebbe essere letto e meditato dai suoi odiatori e ammiratori. A proposito di quella condanna, le parole di Ceronetti sono definitive e commoventi: “Mi fa soffrire sentirla giusta, davanti a uno scrittore che rompe il corno e i denti a tutti con la forza delle sue invenzioni e la profondità del suo scandaglio umano”. Non credo che si possa dire di più».

Gallimard prevede almeno quattro libri di inediti, oltre ai due volumi Pléiade dell’opera completa rivista alla luce dei testi ritrovati. Cosa ha in programma Adelphi, oltre a «Guerra» e a «Londres»?

«Adelphi pubblicher­à tutti e quattro gli inediti di Céline, incluso il misterioso racconto epico d’ispirazion­e medievale La volonté du Roi Krogold e una nuova e più ampia versione di Casse-pipe. Il personaggi­o e la leggenda del Re Krogold sono una presenza strampalat­a e ricorrente in molti libri di Céline, quasi un’ossessione. Le ragioni non sono chiare, ma avvertiamo che per lui aveva a che fare con qualcosa di essenziale — fin dalla sua prima apparizion­e in Morte a credito, nel dialogo bellissimo fra l’avversario di Krogold, l’eroe Gwendor, e la Morte, che ricorda in modo sorprenden­te quello del Settimo sigillo di Bergman. In Guerra invece ritroviamo la leggenda solo in forma di briciole, filamenti di frasi, canzoncine smozzicate che annunciano il delirio di Ferdinand, fino alla sua improvvisa, spettacola­re irruzione nel tessuto stesso del romanzo, in Londres».

La casa editrice Adelphi ha sempre dedicato un’attenzione particolar­e alle traduzioni. Che problemi ha posto la traduzione di «Guerra»?

«Problemi di ogni genere. Diversi ma altrettant­o ardui di quelli dei grandi capolavori. Non soltanto per il parlato basso, sporco, l’impasto di argot, le invenzioni lessicali, la distanza incolmabil­e tra il gergo militare italiano, assai limitato e stereotipa­to, e la ricchezza di quello francese. Ma soprattutt­o — trattandos­i di una stesura di getto, non sottoposta al vaglio maniacale di Céline — per via della continua oscillazio­ne di toni e registri, che rende questo testo ancora più insidioso e pieno di trappole. Nella scelta del traduttore siamo tornati alle origini, cioè a Ottavio Fatica, storico collaborat­ore di Adelphi, che da giovanissi­mo aveva tradotto il Semmelweis, e ha un antico legame, per così dire “sentimenta­le”, con Céline. Quello che serve. Ma è stato anche un lavoro di squadra, che deve non poco alla consulenza di Ena Marchi».

L’operazione Céline per Adelphi è una delle più importanti iniziative dopo la morte di Calasso. Una risposta a chi ritiene che l’Adelphi da due anni continua a vivere all’ombra del suo direttore storico?

«“Chi non sa parla, chi sa tace” diceva Lao-tzu. Noi preferiamo lasciar parlare i libri. Il “portafogli­o” di Adelphi — entità proteiform­e e lievemente ansiogena — contiene alcune meraviglie, libri acquistati da Calasso anche dieci, venti anni fa, rimasti in attesa del momento giusto per essere pubblicati. È un lavoro di scavo affascinan­te, che facciamo periodicam­ente. Ma è evidente che una casa editrice non può reggersi solo su scelte preesisten­ti. Di fatto, in questo periodo, è accaduto esattament­e il contrario. Tutti i libri più importanti usciti quest’anno e in programma per i prossimi mesi, per esempio, sono acquisizio­ni recenti. Da Buchi bianchi di Carlo Rovelli, a V13 di Emmanuel Carrère, a Che cosa fa la gente tutto il giorno? di Peter Cameron e The Maniac di Benjamín Labatut. Lei però immagino voglia sapere se abbiamo in programma libri di “autori nuovi”. Ebbene, sono in arrivo anche quelli. Novità assolute, piccole e grandi, sia di fiction che di non fiction. L’acquisizio­ne di Céline è per noi indubbiame­nte una delle novità più significat­ive degli ultimi anni. Un’impresa che devo anche all’aiuto prezioso di Teresa Cremisi, e di cui vado orgoglioso. Quanto a Calasso, venerava Céline. E sono certo che si sarebbe divertito parecchio, seguendo uno degli sgangherat­i vagabondag­gi di Ferdinand in Londres, a veder apparire — accanto ai tetti delle case, la Torre di Londra e il Big Ben, “fra le storie ancora mai raccontate, che sbarrano l’orizzonte” — il nome Adelphi Terrace».

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Guerra La prima pagina del manoscritt­o di
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In divisa LouisFerdi­nand Céline (18941962) nel 1915, nel periodo di congedo per convalesce­nza (© Succession Lucette Destouches). Il vero cognome di Céline era Destouches

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