Le valvole di sfogo per i fiumi? In Romagna neanche una Il caso delle casse di espansione
Privilegiata la parte emiliana, in passato più colpita dalle alluvioni
Il 21 ottobre del 1998 la commissione Territorio e Ambiente della Regione Emilia-Romagna si riunisce per dare il via libera alla costruzione di una cassa di espansione sul torrente Samoggia. Le casse di espansione sono le valvole di sicurezza dei fiumi: bacini artificiali vicini agli argini che si riempiono in caso di necessità, e impediscono l’esondazione di un corso d’acqua in piena. Quel giorno, a Bologna, la seduta dura pochi minuti: approvazione all’unanimità, costo 296 milioni di lire, nessuna protesta sul territorio. Fatto non scontato, perché magari all’epoca il termine Nimby non andava ancora di moda. Ma quelli del «si faccia ovunque ma non a casa mia» c’erano già. Come mai filò tutto liscio, nel Paese dei ricorsi, dei veti e dei «non ci sto»? Il motivo è semplice ma soprattutto amaro. Due anni prima, pochi mesi dopo la catastrofica alluvione che aveva distrutto Sarno, in quel pezzo di Emilia c’era stata un’alluvione che aveva colpito durissimo. Chi ci è passato lo sa. E fino a pochi giorni fa, in Emilia-Romagna, c’era chi sapeva di più e chi di meno.
I 23 progetti
Tra il 2015 e il 2022 l’EmiliaRomagna ha destinato 190 milioni di euro alla costruzione di 23 casse di espansione. Di queste, oggi solo 12 sono pienamente operative, come quella del Panaro, del Secchia e del Parma. Due vanno a mezzo servizio, come quella del Senio dove è in corso un faticoso esproprio. Altre nove non sono state terminate, come quella del Baganza, ferma al 30% dei lavori. Tutte quelle operative sono in Emilia, la Romagna non ne ha neanche una. Perché questa differenza? Secondo un documento dell’Associazione idrotecnica italiana, il fatto è che storicamente l’Emilia è stata più colpita dalla alluvioni rispetto alla Romagna. Le prime casse di espansione, in Emilia, sono state costruite alla fine degli anni ‘70 per iniziativa dell’agenzia interregionale del Po. E quella scelta, ricorda il documento, venne fatta «a seguito delle alluvioni del 1973».
Bisogna passarci per capire quanto conta davvero la prevenzione. Anche perché le casse di espansione un difetto ce l’hanno.
L’impatto politico
Armando Brath, professore del Dipartimento di ingegneria Civile dell’Università di Bologna la chiama «sindrome degli amministratori». In che senso? «Se realizzo una rotatoria, si vede e ci metto poco a farla. Se invece realizzo una cassa di espansione, intanto occupa il territorio e se va bene gli effetti li si vedrà solo nel futuro. Non sono opere molto popolari, non c’è redditività politica immediata». Ma questo vale fino a quando i fiumi restano tranquilli nei loro argini. La sua prima lezione il Veneto l’ha avuta nel 1951 con l’alluvione del Polesine, 100 morti e 180 mila senza tetto. Più di recente nel 2010, quando a finire sott’acqua furono il Padovano e il Vicentino.
Il caso Veneto
Oggi in Veneto le casse di espansione ci sono. Qui, nel 2018, la tempesta Vaia fece precipitare 715 millimetri di pioggia in 70 ore. I danni furono pesanti ma non ci furono allagamenti paragonabili a quelli che abbiamo visto in questi giorni in Romagna. Dove di acqua, sebbene concentrata in poco più di 24 ore, ne è caduta meno della metà: 300 millimetri. L’ennesima conferma, l’ennesima lezione. In termini tecnici si dice che le casse di espansione consentono all’acqua di «divagare», cioè di staccarsi dal flusso principale. Sulla necessità di costruirle, invece, la divagazione non è più possibile.