TWITTER E LA SPOON RIVER DIGITALE
Èil 1915 quando Edgar Lee Master pubblica «L’antologia di Spoon river», raccolta di epitaffi in cui gli abitanti di un villaggio immaginario si raccontano in prima persona a chi si trova a passare nel cimitero. Un secolo dopo una nuova, meno letteraria ma più reale, Spoon river popola i social network, con messaggi e profili che rimangono prigionieri della burocrazia, anche post mortem. Per questo la decisione presa da Elon Musk — chiudere gli account inattivi — è forse la prima non controversa da quando è l’editore di Twitter. Molti utenti di questi account sono solo dormienti, annoiati. Ma altri, è facile capirlo, sono davvero deceduti.
Fin dalle loro origini i social network hanno alimentato una sorta di imbarazzante cimitero dei post come se avesse un qualche senso popolare un limbo delle anime digitali perdute. Tutto ciò, inutile nascondersi dietro un dito, è alimentato da una consapevole negligenza, tanto furba quanto cinica, a favore di business (il numero degli utenti conta ai fini pubblicitari). E cosa aggiungere sugli algoritmi che talvolta sbagliano, a dispetto della loro supposta intelligenza, consigliando di seguire qualche scomparso? Accade anche questo. C’è un motivo se sulla Terra ci separiamo anche ritualmente dai nostri cari. Insensato che talvolta sembri che sia ancora più difficile farlo online: le procedure per chiudere gli account di amici e familiari scomparsi non è così immediata. Per Facebook c’è voluto in passato l’intervento dei notai per dirimere una questione degna delle pagine più riuscite della burocrazia kafkiana: chi è l’erede delle nostre password? Può sembrare una domanda ingenua. Ma può diventare una pessima esperienza per chi ci passa. Dunque che si chiudano gli account inattivi, senza rammarico. Basterebbe ricordare che quello che lasciamo online non sembra nemmeno da lontano una Spoon river che vale la pena riprendere in mano. Semmai è tutto ciò che non avremmo voluto o dovuto dire in vita.