DON MILANI NON FU IL LEFEBVRE ROSSO
Caro Aldo,
il 27 maggio prossimo ricorrono i cent’anni della nascita di don Lorenzo Milani. Mi pare che da anni la sinistra ne abbia fatto un suo mito, ma leggendo alcuni suoi testi non sarei così sicuro di intrupparlo in quella scuola di pensiero o di partito. Lei che ne pensa?
Francesco Lenzi, Torino
Caro Francesco, igure come quelle di don Lorenzo Milani non appartengono a uno schieramento politico. Il prossimo 27 maggio saranno a Barbiana, il paesino nel Mugello dove la Chiesa lo confinò, il presidente Mattarella e il presidente dei vescovi italiani Zuppi. Proprio in quel borgo don Milani perfezionò la scuola popolare, già avviata a Calenzano, che lo rese noto in tutt’Italia e non solo: un missionario per anni a Hong Kong, Gianni Criveller, ha tradotto «Lettera a una professoressa» in cinese.
Don Milani oggi è ricordato
Fnon solo per la Lettera, ma anche per «L’obbedienza non è più una virtù» sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Spesso, come lei sottolinea, è stato additato come personalità culturalmente di sinistra, ma don Milani era un prete a tutto tondo, radicalmente cristiano, con una personalità fortissima, come si evince dalle Lettere che ora la San Paolo ha ripubblicato. In questi giorni al Salone del libro di Torino Rosy Bindi e Tomaso Montanari hanno parlato di don Milani come uomo di giustizia. Visitandone la tomba nel 2017, papa Francesco ha affermato che in don Milani «la Chiesa riconosce un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa», parlando di don Lorenzo come di «un credente innamorato della Chiesa, anche se ferito». Ma don Milani non era un Lefebvre rosso (essendo monsignor Lefebvre il tradizionalista scismatico che lasciò la Chiesa in odio al Concilio addolorando papa Paolo VI). Per quanto avversato dalle gerarchie ecclesiastiche (il suo «Esperienze pastorali» venne proibito dal Sant’Uffizio), disse: «Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa». Proprio sulla scuola, che don Milani voleva radicalmente cambiare, riconosceva per paradosso che quella dichiaratamente cattolica era migliore di quella del suo tempo. Scrive nella Lettera: «Una volta c’era la scuola confessionale. Quella un fine l’aveva e degno d’essere cercato». Sempre nello stesso testo, don Milani difendeva l’insegnamento del Vangelo a scuola: «Tre anni su tre brutte traduzioni di poemi antichi (Iliade, Odissea, Eneide). Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo. Non dite che il Vangelo tocca ai preti. Anche levando il problema religioso restava il libro da studiare in ogni scuola e in ogni classe».