«Vivo la vita ora Non ho più paure» Tutti con Murgia
TORINO «Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso, ora che non ho più filtri, non ho più paure, dico tutto. È un momento di grandissima libertà». È forse questo il messaggio più forte che arriva dalla Sala Oro del Lingotto a Torino, dove parla Michela Murgia, in quello che Matteo B. Bianchi, scrittore e autore televisivo, con lei sul palco, definisce «l’appuntamento più atteso di questo Salone». Un messaggio di libertà, che la Sala gremita, vicina e partecipe, recepisce. Tutti in piedi, lunghi applausi, saluti anche attraverso i vetri trasparenti da parte di chi è rimasto fuori e non è riuscito a entrare. La fila ieri è iniziata già tre ore prima dell’incontro.
È la prima volta che la scrittrice torna in pubblico dal vivo dopo avere parlato della sua malattia, un tumore al quarto stadio da cui, aveva detto ad Aldo Cazzullo sul «Corriere», «non si torna indietro». Appare insieme forte e sensibile, sorridente, protettiva e complice verso gli affetti seduti in prima fila, parte della famiglia queer sulla quale, con una scelta condivisa, si è aperta di più proprio nelle ultime settimane.
S’incomincia dal libro, Tre ciotole (Mondadori), che a sua volta incomincia da lei, da quella diagnosi, anche se il volume è un romanzo e dunque, come quasi sempre fa la letteratura, «tutto è trasfigurato». Un romanzo particolare, composto, spiega l’autrice stessa, «da dodici racconti concatenati i cui personaggi si sfiorano. Tutti sono accomunati dall’essere dentro una crisi, di fronte a cui tuttavia non trovano una soluzione, ma cercano un modo per contenere il disastro».
Bianchi, a sua volta autore di La vita di chi resta (Mondadori), chiede a Murgia di riflettere sul racconto del dolore. «Dipende da come lo fai — risponde lei —: finché non hai preso coscienza della sofferenza meglio evitare, ma quando lo hai fatto e sei uno scrittore, sai che le parole possono aiutare: aprire qualche ferita può curare quelle di altri».
Nel corso dell’incontro l’autrice torna anche sul registro con cui in genere si parla della malattia. Nel suo caso quello bellico non funziona. «Non riesco ad alzarmi la mattina con l’idea di dover “combattere”, con la lancia in resta. Sarebbe una vita senza pace. D’altra parte non è vero che sarò sconfitta dal cancro: moriremo insieme, siamo la stessa cosa». Murgia racconta che, quando gli ha chiesto come mai non se ne fosse accorta prima, dove avesse sbagliato, l’oncologo le ha spiegato che «il tumore arriva dall’infanzia» e che lei non avrebbe potuto farci nulla. Una prospettiva che, oltre al registro della battaglia, l’ha liberata anche «da quello della colpa». «Non è una notizia — dice — che tutti moriremo. Ma io vorrei arrivare viva alla morte».
E un atto di vita è l’episodio, reale oltre che nel libro, di una festa con i vestiti dell’autrice appesi agli alberi, da affidare a chi le vuole bene. In Tre ciotole si narra anche di una donna che non vuole bambini ma porta avanti una gestazione per altri, un amico e la compagna che non riescono ad avere figli. «Gravidanza e maternità possono essere cose diverse», nota Murgia. E lei stessa poco prima avedeciderà va citato dal palco «la madre di mio figlio Claudio, che non è la mia compagna».
Già nell’ultimo periodo l’autrice era tornata sui social sul tema della famiglia queer: «Una famiglia in cui i ruoli non sono definiti ma un luogo di organizzazione di responsabilità in modo fluido, interscambiabile; una famiglia per scelta, indipendente dalla coppia, dalla sessualizzazione, dalla parentela, ma che per lo Stato è nulla, che non erediterà né per me se io non potrò farlo. In Germania invece, già nel 2022, fu presentato un progetto di legge per legittimare queste comunità di corresponsabilità».
Nel finale Murgia, come affidando una specie di «eredità», invita a essere liberi da subito. Sorridendo dice che lei stessa si è proposta a «Vogue» per il viaggio sull’Orient Express e confessa la sua passione per moda e sfilate, scherzando anche su Elly Schlein,: «Un’amica passata per “fashionista” perché per una volta qualcuno l’ha consigliata sui colori, quando si è sempre vestita al buio». Quindi, esorta: «Non aspettate di avere un cancro per agire liberamente, sennò avremo ancora i fascisti al governo».
Una posizione già espressa, su cui era tornata anche al mattino ospite dello stand de «La Stampa». «Penso — aveva spiegato — che questo governo sia fascista, si vede dalle decisioni. Va tutto in una certa direzione: controllo dei corpi e della libertà personale, discriminazioni delle comunità già discriminate che stavano cominciando a ottenere dei diritti. Non serve che il fascismo bussi a casa con l’olio di ricino. L’Italia non ci ha fatto davvero i conti, lo ha rimosso, per questo si fa fatica a riconoscerlo». In Sala Oro, infine, alle domande se si ritenga coraggiosa e «antagonista», Murgia risponde: «In un Paese civile gli intellettuali fanno ciò che faccio io. E in una democrazia nessuno viene trascinato in tribunale».
Si vede dalle scelte: penso che questo governo sia fascista