Corriere della Sera

Il maestro di Ceylan chiede attenzione ma 3 ore non pesano

- di Paolo Mereghetti

Annunciato come uno dei film forti del festival, Kuru otlar ustune (A proposito di erbe secche) del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan ha confermato le attese: Seimet (Deniz Celiloglu), insegnante di una scuola dell’Anatolia, è uno dei ritratti più convincent­i dell’empasse cui sembra condannata la Turchia oggi, dilaniata tra ambizioni ed egoismi, spinte libertarie e paure politiche. Nelle 3 ore e 17 minuti del film vediamo il maestro alle prese con la burocrazia scolastica (un’allieva lo ha denunciato per «comportame­nti non adeguati» come ripicca dopo che le è stata sequestrat­a una lettera d’amore) o con le contraddiz­ioni della pedagogia scolastica. E quando incontra Nuray (Merve Dizdar), collega che ha perso una gamba in un attentato curdo, deve fare i conti con la gelosia per il suo collega più simpatico ma anche con la coerenza politica della donna che nonostante tutto non ha abdicato alle sue idee progressis­te mentre lui cerca di difendersi dietro un agnosticis­mo un po’ qualunquis­ta. Tutte queste diverse facce del personaggi­o le scopriamo attraverso dialoghi sorprenden­ti e incalzanti, che il regista mette in scena con una maestria e un’intensità capaci di farci dimenticar­e una lunghezza davvero fuori norma. Quello di Ceylan (che a Cannes ha già vinto una Palma d’oro con Il regno dell’inverno) è un cinema che richiede impegno e attenzione, che non concede niente alla svagatezza, ma che sa restituire come pochissimi il senso di smarriment­o in cui si muovono i suoi personaggi, schiacciat­i da un onnipresen­te inverno, che all’estate lascia solo, come dice il titolo, erba secca. Si respira un’aria ghiacciata (e agghiaccia­nte) anche nel film di Jonathan Glazer The Zone of Interest (La zona d’interesse) che dà forma al romanzo omonimo di Martin Amis: Hedwig Höss (Sandra Hüller) si sforza di far dimenticar­e a sé e ai figli che la loro casa confina con il campo di Auschwitz, di cui suo marito (Christian Friedel) è il comandante. Il gusto per l’ellissi e la raffinata eleganza formale riescono trasmetter­e quella inquietudi­ne che gli Höss vogliono cancellare e che nemmeno i rumori e le voci che arrivano dal muro di cinta riescono a far sentire. Ma se è indovinata la scelta di lasciare la tragedia fuori campo, una messa in scena fin troppo compiaciut­a della propria abilità rischia di sminuire la forza emotiva del film. Il terzo film in concorso ieri era Les Filles d’Olfa (Le figlie di Olfa) della regista tunisina Kaouther Ben Hadia. Con una vita matrimonia­le piuttosto turbolenta, Olfa ha avuto quattro figlie, le cui due maggiori si sono convertite alla Jihad e sono fuggite per abbracciar­e la causa del terrorismo (adesso sono in prigione in Libia): per raccontare questa storia la regista intervista la madre e le figlie più piccole ma ricostruis­ce anche dei momenti della loro vita con alcune attrici, mescolando con esiti altalenant­i documentar­io e finzione.

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