Il maestro di Ceylan chiede attenzione ma 3 ore non pesano
Annunciato come uno dei film forti del festival, Kuru otlar ustune (A proposito di erbe secche) del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan ha confermato le attese: Seimet (Deniz Celiloglu), insegnante di una scuola dell’Anatolia, è uno dei ritratti più convincenti dell’empasse cui sembra condannata la Turchia oggi, dilaniata tra ambizioni ed egoismi, spinte libertarie e paure politiche. Nelle 3 ore e 17 minuti del film vediamo il maestro alle prese con la burocrazia scolastica (un’allieva lo ha denunciato per «comportamenti non adeguati» come ripicca dopo che le è stata sequestrata una lettera d’amore) o con le contraddizioni della pedagogia scolastica. E quando incontra Nuray (Merve Dizdar), collega che ha perso una gamba in un attentato curdo, deve fare i conti con la gelosia per il suo collega più simpatico ma anche con la coerenza politica della donna che nonostante tutto non ha abdicato alle sue idee progressiste mentre lui cerca di difendersi dietro un agnosticismo un po’ qualunquista. Tutte queste diverse facce del personaggio le scopriamo attraverso dialoghi sorprendenti e incalzanti, che il regista mette in scena con una maestria e un’intensità capaci di farci dimenticare una lunghezza davvero fuori norma. Quello di Ceylan (che a Cannes ha già vinto una Palma d’oro con Il regno dell’inverno) è un cinema che richiede impegno e attenzione, che non concede niente alla svagatezza, ma che sa restituire come pochissimi il senso di smarrimento in cui si muovono i suoi personaggi, schiacciati da un onnipresente inverno, che all’estate lascia solo, come dice il titolo, erba secca. Si respira un’aria ghiacciata (e agghiacciante) anche nel film di Jonathan Glazer The Zone of Interest (La zona d’interesse) che dà forma al romanzo omonimo di Martin Amis: Hedwig Höss (Sandra Hüller) si sforza di far dimenticare a sé e ai figli che la loro casa confina con il campo di Auschwitz, di cui suo marito (Christian Friedel) è il comandante. Il gusto per l’ellissi e la raffinata eleganza formale riescono trasmettere quella inquietudine che gli Höss vogliono cancellare e che nemmeno i rumori e le voci che arrivano dal muro di cinta riescono a far sentire. Ma se è indovinata la scelta di lasciare la tragedia fuori campo, una messa in scena fin troppo compiaciuta della propria abilità rischia di sminuire la forza emotiva del film. Il terzo film in concorso ieri era Les Filles d’Olfa (Le figlie di Olfa) della regista tunisina Kaouther Ben Hadia. Con una vita matrimoniale piuttosto turbolenta, Olfa ha avuto quattro figlie, le cui due maggiori si sono convertite alla Jihad e sono fuggite per abbracciare la causa del terrorismo (adesso sono in prigione in Libia): per raccontare questa storia la regista intervista la madre e le figlie più piccole ma ricostruisce anche dei momenti della loro vita con alcune attrici, mescolando con esiti altalenanti documentario e finzione.